Non è stato un fulmine a ciel sereno. La nomina di Luigi Di Maio a inviato speciale dell’Unione europea presso i Paesi del Golfo Persico era nell’aria. Non è ancora definitiva perché mancano alcuni passaggi in vista della ratifica del Consiglio europeo che, fidatevi, arriverà nonostante la dichiarata contrarietà del Governo italiano.
L’indicazione dell’ex ministro degli Esteri nei Governi Conte II e Draghi è venuta dall’Alto rappresentante dell'Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell. La decisione, presa a Bruxelles, di ripescare uno tra i più ambigui protagonisti della vita politica italiana non è stata un regalo al nostro Paese. Al contrario, la si può definire un pugno sferrato al petto del Governo Meloni. Borrell ha motivato la scelta asserendo che l’ex grillino avesse il necessario profilo politico a livello internazionale per ricoprire un ruolo tanto prestigioso quanto strategico. Sarà, ma non condividiamo l’ottimismo del responsabile della politica estera dell’Ue. Forse perché in Italia, su Di Maio, abbiamo visto un altro film. La totale impreparazione di “Giggino” al ruolo che lo attende stimola un legittimo interrogativo: la sua nomina, cui prodest? Di certo, non all’Italia. Si dice in giro che sia stato un cadeau di Mario Draghi al “soldatino Giggino”, per aver questi tradito i Cinque Stelle pur di restargli accanto nell’avventura governativa.
Francamente, viene difficile credere a un Draghi preoccupato delle sorti di uno dei suoi meno stimati collaboratori, sebbene salti all’occhio una bizzarra coincidenza. Se ci chiedessimo quale sia l’odierno destino dei componenti del cerchio magico stretto attorno al Mario Draghi politico, ecco la risposta: Giancarlo Giorgetti al Ministero dell’Economia; Roberto Cingolani, amministratore delegato del Gruppo Leonardo; Renato Brunetta, presidente del Cnel (Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro). E adesso Di Maio nel gruppo di vertice della Commissione europea. Ma tra i commentatori politici si è fatta strada anche l’ipotesi che la scelta forzata sull’ex capo grillino sia stata un avvertimento rivolto dai padroni del vapore europeo, che si muovono lungo l’asse Parigi-Bruxelles-Berlino, all’arrembante leader italiana, Giorgia Meloni, perché non mettesse troppo la testa fuori dal sacco pretendendo pari dignità per il suo Paese rispetto ai partner più forti dell’Unione. È una tesi che ci convince molto.
La Meloni comincia a spaventare i santuari del potere eurocratico non per ciò che rappresenta ma per ciò che potrà rappresentare nel prossimo futuro. Lei è la leader dei Conservatori europei. Finora, la carica non si è tradotta in aumento di peso specifico nei rapporti di forza interni all’Unione. Ma tale condizione potrebbe presto cambiare. Se, come qualcuno comincia a prevedere, alle elezioni europee del 2024 un’accresciuta forza conservatrice si proponesse al Partito Popolare Europeo come valida alternativa alla sinistra, tutto l’asse della politica continentale si sposterebbe dal centrosinistra al centrodestra. E la Meloni finirebbe per occupare una posizione dominante sulla scena continentale e una centralità nella costruzione delle future maggioranze nel Palamento europeo. Tale prospettiva non piace all’inquilino dell’Eliseo, Emmanuel Macron, e nemmeno al Cancelliere tedesco, il socialdemocratico Olaf Scholz. Da qui la volontà di tirarle un calcio sugli stinchi, tanto per ricordarle chi comanda in Europa e chi invece è chiamato a obbedire. Ci sta: non vuoi Luigi Di Maio? E noi prendiamo Di Maio per dimostrarti che possiamo fare quello che più ci aggrada senza che tu possa fare niente per impedirlo.
E questa sarebbe la solidarietà europea? Luigi Di Maio è diventato l’Incitatus dei giorni nostri. Vi domanderete chi fosse Incitatus e il perché della sua fama. Incitatus era un cavallo. Segnatamente, il cavallo dell’imperatore Caligola il quale, per dimostrare il suo potere assoluto anche sul Senato, manifestò l’intenzione di nominarlo console. Le fonti storiche narrano che il cavallo sarebbe effettivamente divenuto console se non fosse intervenuta la prematura morte dell’imperatore a evitarlo. Ma se per noi “Giggino” è il cavallo – per il senatore Maurizio Gasparri di Forza Italia è più appropriatamente asino – per Bruxelles è un siluro lanciato verso l’Italia. Già, perché la sua pericolosità per gli interessi nazionali italiani sta in ciò che ha fatto quando era al potere. “Giggino” è stato l’uomo che, da ministro, in combutta con l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, col pretesto di punire i Paesi che fomentavano la guerra civile nello Yemen, ha messo in crisi le relazioni dell’Italia con l’Arabia Saudita e con gli Emirati Arabi Uniti. Nel gennaio del 2021, il duo Di Maio-Conte decise il congelamento delle licenze per la fornitura agli Emirati Arabi Uniti di ventimila bombe per aerei prodotte in Italia. Non soddisfatti, bloccarono anche le forniture di pezzi di ricambio per la pattuglia acrobatica emiratina. Un insulto che per il Governo di Abu Dhabi non poteva rimanere impunito. Il principe Mohamed bin Zayed, capo di Stato degli Emirati, in risposta intimò all’Italia lo sfratto dalla base aerea di al Minhad, infrastruttura strategica per la presenza delle nostre forze aree nell’area del Golfo, operativa dal 2002. La rottura con il Governo di Abu Dhabi avrebbe potuto avere conseguenze ancor più gravi, considerando il peso finanziario e geopolitico che l’Emirato esercita in tutti i teatri del Nord Africa e del Medio Oriente. Perciò, non è stato un caso se, tra i primi viaggi all’estero, Giorgia Meloni avesse programmato quello negli Emirati Arabi Uniti. La visita di Stato, tenuta dal nostro premier lo scorso 3 marzo, è servita a rilanciare la cooperazione tra i due Paesi e, soprattutto, a spiegare agli emiratini che il nuovo Governo non aveva nulla a che fare con quelli precedenti nei quali era presente Luigi Di Maio. Lavoro complicato, che adesso rischia di andare in fumo se ad Abu Dhabi non dovessero credere all’estraneità di Giorgia Meloni e di Antonio Tajani, ministro degli Esteri, nella designazione di un nemico giurato degli Emirati Arabi Uniti a delegato speciale della Ue, per di più con un mandato specifico a trattare di forniture energetiche per i Paesi dell’Unione.
Qualcuno obietterà che non sia il caso farne un dramma, atteso che la Commissione dell’Unione europea in quell’area del mondo, di fatto, non tocca palla. Vero, ma non dimentichiamo il motivo occulto per il quale il duo Di Maio-Conte si rese responsabile del disastro diplomatico nel Golfo Persico. C’era stata, poco tempo prima, la stipula degli Accordi di Abramo, l’intesa di pace volta a normalizzare i rapporti tra la monarchia del Golfo, gli Stati Uniti e Israele. Accordo non gradito a Russia e Cina, sponsor nell’area della Repubblica iraniana. Essendo nota la particolare attenzione riservata dai grillini alle relazioni con Mosca, e ancor più con Pechino, è facile dedurre la spiegazione dell’illogico comportamento di Luigi Di Maio riguardo ai rapporti con il Governo di Abu Dhabi.
Ricapitolando: un amico di Xi Jinping, di nazionalità italiana, in odore d’intelligenza con il nemico iraniano si presenta ad Abu Dhabi a trattare di gas e petrolio per conto dell’Unione europea senza che il suo Paese d’origine ne sappia nulla. Il tutto sta nel crederci. Se, invece, l’interscambio commerciale, del valore di oltre 4 miliardi di dollari l’anno, tra Italia ed Emirati Arabi Uniti dovesse essere messo nuovamente in discussione a causa della presenza indesiderata dell’italiano sbagliato sulla scena, chi credete ne gioverebbe? Le imprese francesi e tedesche, sostenute dai rispettivi governi, sono in costante agguato, pronte a soffiarci tutto ciò che possono portarci via. Come è accaduto in diverse altre occasioni. A questo punto, cosa si può fare per impedire che la nomina di Luigi Di Maio diventi definitiva? Ben poco, se non scolpirsi sulla fronte la massima secondo la quale le relazioni tra Stati sono nient’altro che la sommatoria dei colpi bassi dati e ricevuti. Appunto, dati. Non soltanto ricevuti.
Aggiornato il 26 aprile 2023 alle ore 09:08