Dio, Patria e intanto: famiglia

Il Governo Meloni tira su il naso dalla quotidianità e comincia a mostrare una sana visione di destra del futuro del Paese. Lo fa a partire da uno snodo fondamentale per la crescita della società, mettendo al centro dell’azione di governo una trasformazione sostanziale del sistema fiscale a beneficio della natalità e della famiglia. È di questi giorni l’intervento del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che ha illustrato la sua idea, da inserire nella manovra di bilancio per il 2024, di azzerare le tasse a chi ha almeno due figli. La formula ricalcherebbe quella già sperimentata con il super bonus del 110 per cento. I tecnici del ministero di Via XX Settembre stanno lavorando alle varie simulazioni di scenario per calcolare l’impatto che una misura di tale portata avrebbe sui conti pubblici. Non sarà un gioco da ragazzi introdurla perché non si tratta di un’ordinaria agevolazione fiscale ma di un radicale cambiamento, che potremmo definire “filosofico”, nella concezione del rapporto tra Stato e cittadino. Che si tratti di una riforma di lunga prospettiva, non ci piove.

Che sia dettata dalla necessità d’interrompere la crisi demografica la quale rischia di condannare il Paese al deperimento della componente autoctona della sua popolazione, anche su questo non ci piove. Giorgia Meloni ha letto, come molti in Italia, i dati sulla dinamica demografica del nostro Paese, che sono a dir poco impietosi: non c’è ricambio generazionale. Gli esperti la chiamano trappola demografica. Secondo l’Istat, al 31 dicembre 2022 la popolazione residente è stata inferiore di circa 179mila unità rispetto a quella dell’anno precedente; la natalità è al minimo storico contro una mortalità molto elevata: meno di 7 neonati e più di 12 decessi per 1.000 abitanti (393mila nati e 713mila morti nel 2022 - con 1,5 milioni di residenti in meno rispetto al 2014). Per l’Istat, l’indice di vecchiaia è il più alto in Europa (per ogni 100 giovanissimi da 0 a 14 anni abbiamo 187,6 anziani over 65), mentre il tasso di fecondità, che dovrebbe essere in media del 2,1 figli per donna per tenere stabile il numero della popolazione, nel 2021 è sceso all’1,25.

Non può certo consolare la notizia che, nel 2022, sia aumentata la popolazione di cittadinanza straniera grazie a un incremento di 20mila individui (3,9 per mille in più rispetto all’anno precedente), per cui su una popolazione residente, al 1° gennaio 2023, di 58milioni 851mila unità, la quota di stranieri è di 5 milioni e 50mila individui. Per Giorgia Meloni, dunque, incentivare la natalità rappresenta una priorità del Governo. Scelta totalmente condivisibile anche perché interviene a spezzare la velenosa narrazione della sinistra che, in questi anni, ha fatto di tutto per convincerci che fare figli fosse un’inutile incombenza, nel momento in cui si sarebbe potuto colmare il gap demografico con la massiccia immissione di stranieri all’interno della comunità nazionale. Rinunciare a fare figli è puro autolesionismo sociale. Per il pensiero di destra, la continuità generazionale costituisce dovere inderogabile di una comunità che vuole perpetuarsi oltre il proprio tempo. Non siamo i padroni assoluti del nostro presente.

La realtà è fatta di molte cose ereditate. E di queste cose, che i nostri padri hanno costruito e ci hanno lasciato, noi siamo custodi sui quali ricade l’obbligo della trasmissione alle future generazioni. L’Italia non è un’espressione geografica, ma è patria nel significato più genuino di “terra dei padri”. É cultura, tradizioni, lingua, valori, spiritualità, arte, storia. Tutti beni di un patrimonio collettivo che forgia un’identità da salvaguardare. Non fare figli è sì un diritto del cittadino ma, allo stesso tempo, è un atto di abdicazione a un sacro dovere al quale, da italiani, la storia ci richiama. La destra, tale imperativo etico, lo ha nel Dna. Tuttavia, bisogna pur fare i conti con il principio di realtà. Giorgia Meloni, pragmaticamente, si chiede in che modo sia possibile passare con concretezza e senza retorica dal verbo chiacchierare al verbo agire.

L’iniziativa a cui sta lavorando Giorgetti è una risposta, ma non può essere l’unica. Esiste un problema di occupazione femminile che incide sulla mancata propensione alla natalità e che va affrontato. Prima di invocare l’importazione dello straniero per coprire l’odierna domanda di forza lavoro che nel Paese c’è e cresce – e, domani, per farci pagare le pensioni – si deve ripensare la politica d’incentivi all’ingresso e al reingresso delle donne nel mercato del lavoro. Sebbene la ripresa lavorativa dopo la pandemia sia stata più forte per le donne che per gli uomini, il gap di genere resta a livelli altissimi (19,3 punti nel 2021-Fonte: Istat). Per farvi fronte, il primo e più impegnativo ostacolo da rimuovere è l’impraticabilità della conciliazione dei tempi di lavoro e dei tempi di vita. Ma non basta. Occorre che lo Stato si volga a valorizzare le iniziative dei privati in direzione del welfare aziendale. Perché non prevedere una premialità in termini di riduzione fiscale per le aziende che organizzano i nidi per i figli minori non in età scolare dei dipendenti? Congedi genitoriali più estesi di quelli previsti dalle normative vigenti e dai contratti collettivi di lavoro?

Certo, anche. Tuttavia, il Governo deve comprendere che se vuole che le giovani coppie ricomincino a fare figli deve abbattere i due Moloch che hanno precipitato le ultime generazioni nella spirale della denatalità. Si tratta dell’estrema precarizzazione del lavoro e dell’assoluta mancanza di politiche abitative basate sull’edilizia pubblica. Se sul fronte occupazionale non si può remare all’incontrario rispetto alle dinamiche di un mercato del lavoro modellato sulle esigenze portate dalla globalizzazione economica, è invece possibile correggerne le distorsioni che hanno consegnato una massa enorme di lavoratori, soprattutto giovani, alle forme di sfruttamento più vergognose. Ma è forse quello della casa il macigno più grande posto sulla strada del ritorno alla natalità. Come si può pretendere che le giovani coppie possano pensare di procreare quando, per assicurarsi un tetto sulla testa, sono costrette a pagare affitti insostenibili? Dov’è finita l’edilizia popolare?

Da quando in Italia non viene varato un piano nazionale di edilizia pubblica? Bisogna andare indietro con la memoria al 1948, quando l’allora ministro del Lavoro e della Previdenza sociale del V Governo De Gasperi, Amintore Fanfani, presentò il progetto Ina-Casa, divenuto legge nel 1949 (Legge 28 febbraio 1949 nr. 43). Il Piano recava Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori ed ebbe un arco temporale di realizzazione dal 1949 al 1963, anno di messa in liquidazione del patrimonio edilizio della Gestione Ina-Casa. È pur vero che, negli anni successivi, altri interventi in favore dell’edilizia popolare vi siano stati, del tipo Gescal (Gestione Case per i Lavoratori) e piani di edilizia pubblica comunale, ma nessuno di questi ha avuto la portata, per dimensioni quantitative e impatto sociale, del cosiddetto Piano Fanfani. Non sarebbe ora, a sessant’anni dalla sua chiusura, di rimettere in piedi un vasto programma di edilizia pubblica per lavoratori?

Visto che siamo ai revival, con i molti “Piani Marshall” che circolano nelle cancellerie europee e l’autarchico “Piano Mattei” di fresco conio per risolvere i problemi dell’Africa, perché non aggiungervi un patriottico “Piano Fanfani 2.0” per tamponare una gigantesca falla aperta nel sistema-Paese? Con l’accorata raccomandazione che, stavolta, i soliti ambientalisti non stiano a rompere le scatole aggrappandosi al pretesto del consumo di suolo. Perché una cosa l’abbiamo capita: contrariamente al messaggio che una nota pubblicità televisiva inviava all’opinione pubblica qualche anno fa, solo dove c’è casa c’è famiglia. E non viceversa. Sono idee, certo. L’importante è che se ne discuta perché, alla fine di tutte le chiacchiere, qualcosa di concreto, e di buono, si faccia per gli italiani di domani atteso che, al momento, se gli togliamo l’Italia, l’unica eredità che li attende è una montagna di debito pubblico caricata sulle loro spalle.

Aggiornato il 22 aprile 2023 alle ore 10:20