A proposito dei diritti da concedere ai piccoli procreati all’estero, facendo ricorso al cosiddetto utero in affitto o alla fecondazione eterologa, il dibattito pubblico che si sta sviluppando in Italia necessita di alcune chiarificazioni. Si parla di diritti del bambino e da qui conviene partire nel tentativo di raggiungere alcuni punti fermi sui quali si spera si possa concordare. Innanzitutto, va detto che non è in alcun modo predicabile il diritto ad avere un figlio. Pur comprendendo il sentimento di incompletezza che può albergare in una coppia senza figli, avere un figlio rimane sempre e comunque un desiderio, un’aspettativa, una speranza: mai un diritto (il verso di Shakespeare lo conferma in alcuni stupendi sonetti). La cosa diviene evidente considerando come se avere un figlio fosse un diritto, ci sarebbe da qualche parte un destinatario dell’obbligo di soddisfarlo, il che non è. In altre parole, dal momento che a ogni diritto deve corrispondere, per elementare esigenza giuridica, un obbligo, in questo caso, l’assenza di tale obbligo esclude l’esistenza del diritto. A meno che si dica lo Stato destinatario dell’obbligo di provvedere a che ogni coppia che voglia un figlio lo ottenga: ma si sconfinerebbe nel ridicolo. Inoltre, va notato che nessuno sembra chiedersi se, allorché una coppia maschile di omosessuali si rechi all’estero per noleggiare l’utero di una donna che a ciò sia disponibile, allo scopo di far nascere un bambino da portare in Italia, vengano violati diritti personalissimi del nascituro e, poi, del neonato.
Il primo di questi diritti è quello di avere un padre e una madre, e precisamente un padre di sesso maschile e una madre di sesso femminile. Il secondo diritto è quello di non essere allontanato senza e contro la sua volontà da quella donna che, per averlo tenuto in grembo per nove mesi (a maggior titolo se essa abbia anche fornito i gameti femminili, oltre che l’utero), a giusto titolo egli può chiamare madre, essendone appunto il figlio. A questo proposito, sorprendono le recenti affermazioni di Massimo Recalcati, psicologo, autore di diversi studi sulla figura paterna: è di suo conio, per esempio, il paradigma del “complesso di Telemaco”, per indicare come oggi i figli abbiano la tendenza a mettersi, come appunto Telemaco, alla ricerca del padre che sembra – precisa Recalcati – “evaporato”, vale a dire pericolosamente scomparso dall’orizzonte filiale. Eppure, nonostante l’accorata insistenza sull’esigenza di recuperare una figura paterna autentica – che non sia il surrogato di quella del despota (di cui si doleva Kafka nella sua celebre lettera) o del compagno di “bischerate” (come in Amici miei di Mario Monicelli) – egli oggi scrive: “Possiamo davvero pensare che la differenza anatomica tra i sessi sia la condizione necessaria e sufficiente per garantire la presenza di una madre e di un padre degni di questo nome? La sostanza del legame famigliare non è il sangue, ma la capacità di amore e di cura nei confronti del figlio”.
Egli ripropone, insomma, in modo irriflesso e ideologico, il primato dell’amore su ogni altra realtà oggettiva che all’amore dovrebbe cedere sempre il passo. Purtroppo, le cose non sono semplici come le dipingono Recalcati e gli ideologi che ne seguono le orme. Infatti, nonostante l’amore sia forse il componente più importante dell’esistenza umana, esso non può mai rivendicare l’ultima parola, proprio per la sua volatilità, il suo esserci e poi dileguare per riaffacciarsi sotto inattese forme: per organizzare in modo acconcio l’esistenza degli esseri umani nei loro reciproci rapporti non basta amarsi, occorrendo prima riconoscersi vicendevolmente come soggetti umani dotati di diritti e rispettosi di doveri. Non a caso, il Codice civile obbliga i coniugi alla reciproca assistenza, alla coabitazione, al sostegno economico, ma non spende una sola parola sull’amore; e Cristo, che pur predicava l’amore perfino per i nemici, ribadì la legittimità delle spettanze di Cesare (quelle del diritto), non sovrapponibili a quelle di Dio (quelle della carità). Non solo. Recalcati non riesce a cogliere, dell’amore, il senso genuinamente personale. Quando infatti egli cita la “adozione simbolica” come necessario spazio di vita che la cura genitoriale prepara per il figlio, ben oltre la generazione, dice bene; ma trascura di notare come l’amore e la cura che ne deriva non sono un pacco postale, tale che nulla cambi se a consegnarlo sia mia zia o il vicino di casa.
Amore e cura sono espressioni profonde della persona, modalità irripetibili del suo abitare il mondo e siccome gli esseri umani non sono intercambiabili, la donna madre metterà in opera modalità specifiche del sesso di appartenenza, l’uomo padre le proprie, diverse e complementari alle prime: entrambe necessarie nel processo di autoidentificazione del figlio. A differenza dall’odiare (posso uccidere o, senza nulla disperdere del mio odio, assoldare un sicario per farlo), amare non è mai un atto neutro che si possa delegare ad altri nell’illusione che nulla cambi: certo anche una zia, un amico, un padre adottivo potranno amare di amore vero, ma giammai di quel medesimo amore della madre o del padre, come tali insostituibili. Per questo, Georg Wilhelm Friedrich Hegel afferma che “la nascita dei figli è la morte dei genitori”. Sapeva che a far posto nel mondo ai figli possono essere solo i genitori: non perché i soli ad amarli, ma perché nessuno li amerà del “loro” amore. Mai.
(*) Articolo tratto dal quotidiano La Sicilia
Aggiornato il 11 aprile 2023 alle ore 10:48