Il no all’estradizione in punto di diritto

Molte delle polemiche seguite alla decisione con cui la Corte di cassazione francese ha negato l’estradizione di una decina di ex terroristi, già condannati in Italia in via definitiva anche per reati di sangue, non hanno in realtà ragion d’essere.

Va chiarito, innanzitutto, che la latitanza – in sé – non rappresenta un illecito, dal momento che nella cornice liberale propria dello Stato di diritto (quale dovrebbe essere, e purtroppo non è, anche la nostra), sottrarsi volontariamente all’esecuzione di un ordine di custodia cautelare viene considerato espressione del diritto di libertà, consustanziale alla dignità di ogni persona umana e perciò non è punibile. Di più. In Svizzera, in Germania e in Danimarca non rappresenta un illecito neppure l’evasione dal carcere, sempre per lo stesso motivo: l’istinto alla libertà, insopprimibile in ogni essere umano, non è mai comprimibile, neppure dal sistema penale dello Stato. Perciò, si punisce chi abbia eventualmente aiutato a evadere, ma non l’evaso in sé.

Ma se uno rimane latitante, come si fa a processarlo allo scopo di appurarne l’eventuale colpevolezza? Il processo si celebra egualmente, dopo averlo dichiarato contumace, vale a dire non semplicemente assente dalla scena processuale, ma inconsapevole della stessa: alla fine dei vari gradi di giudizio, si giungerà così a una sentenza di condanna o di assoluzione resa nella contumacia dell’imputato. Il che è esattamente ciò che è accaduto in Italia, quando si celebrarono i processi nei confronti di costoro, poi condannati per vari reati anche gravi, quali l’omicidio volontario: essendo tutti latitanti, furono giudicati e condannati in contumacia.

Queste considerazioni vanno tenute presenti per cercare di capire cosa abbia indotto la Cassazione francese a negare l’estradizione di quei soggetti, tirando in ballo un problema attinente al processo equo. Infatti, secondo la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, un processo svoltosi nella contumacia degli imputati non può essere considerato equo, perché costoro non sono stati in grado di far valere le proprie difese attraverso un normale contraddittorio. E a nulla vale osservare – in senso opposto – che essi, scegliendo volontariamente la latitanza, hanno dato causa alla contumacia, impedendo con ciò lo svolgimento di un normale processo. E non vale perché, come già osservato, la latitanza non è mai un comportamento illecito, ma del tutto lecito. Perciò da una causa lecita non potrà mai derivare, in modo giuridicamente corretto, un effetto di segno negativo, perché gravemente limitativo dei diritti processuali del latitante contumace.

Ecco perché in Francia, nel momento in cui il latitante già condannato in contumacia viene catturato, il processo nei suoi confronti è celebrato da capo, azzerando quello precedente, viziato in modo irrimediabile dall’impossibilità per il contumace di difendersi in modo adeguato: all’iniquità di questo si sostituisce l’equità di quello. In Italia, invece, pur dopo la riforma della disciplina della contumacia, per celebrare un nuovo processo che sia equo, perché consente all’imputato di difendersi in modo pieno e completo, occorre che costui non abbia avuto notizia del processo e che non abbia rinunciato a prendervi parte. Orbene, si capisce subito che queste condizioni sono molto esigenti, equivalendo di fatto a caricare su di lui un onere probatorio quasi impossibile da soddisfare, perché l’imputato dovrebbe fornire una doppia prova negativa: non aver avuto notizia del processo e non aver rinunciato a prendervi parte.

Sicché, non accade mai o quasi mai che in Italia il processo già celebrato nei confronti del contumace venga ripetuto dopo la sua cattura, lasciando che esso sopravviva in tutta la negatività giuridica della sua indelebile iniquità. La Cassazione francese lo sa e per questo ha negato l’estradizione.

I parenti delle vittime dovrebbero perciò prendersela non con il massimo organo di giustizia di Parigi – fedele ai diritti umani e al proprio ruolo istituzionale – ma con le nostre leggi inique e con i giuristi di casa nostra, troppo impegnati a dibattere nei salotti televisivi sul dilettevole tema della durata dei processi, per accorgersi del tasso di ingiustizia che, tramite la contumacia, viene veicolato. Troppo.

(*) Articolo tratto dal quotidiano La Sicilia

Aggiornato il 04 aprile 2023 alle ore 17:21