Ci risiamo. La nostra, a dir poco, effervescente giurisprudenza ci presenta oggi una nuova ipotesi giuridica, non ignota invero all’ordinamento tedesco o svedese: quella delle pene cosiddette “naturali”. “Naturale” sarebbe la pena data dalla sofferenza direttamente derivante, per il colpevole stesso, dalla commissione di reati colposi, quelli cioè dove l’autore causa un danno più o meno grave non per averlo voluto intenzionalmente, bensì per imprudenza, imperizia, scarsa attenzione: esempio classico è quello dell’omicidio derivante da un incidente stradale, nel quale l’omicida patisce una grave sofferenza, se il danneggiato o il morto è un suo parente stretto o un amico.
Ebbene, il Tribunale di Firenze, poche settimane fa, ha rimesso alla Corte costituzionale il giudizio circa le norme che, punendo l’omicidio, in quel caso per violazione delle disposizioni antinfortunistiche sul lavoro, non consentono al giudice di chiudere il procedimento, in quanto il colpevole – già condannato a soffrire di suo per la perdita del nipote – non potrebbe essere costretto a subire una pena aggiuntiva a quella.
Al di là delle riflessioni giuridiche che già da qualche tempo hanno visto la luce sul punto, occorre brevemente avanzare un’osservazione critica di carattere preliminare a ogni altra. Ammettere la legittimità giuridica di tali pene naturali – cioè della sofferenza generata in chi ha commesso il reato a danno di chi si vuole bene – vuol dire né più né meno che espellere le ragioni della giustizia, alle quali si sovrappongono quelle della coscienza individuale.
Dare la precedenza alla sofferenza personale significa, infatti, mettere fra parentesi la valenza pubblica del diritto penale e delle sue ineludibili spettanze, svuotandolo di senso, privatizzando il diritto pubblico nel cui ambito esso si muove, seguendo peraltro un certo e diverso indirizzo già presente da alcuni anni nel nostro sistema. Tacendo che, in ogni caso, il giudice oggi può applicare le attenuanti generiche allo scopo di mitigare la pena.
Da qualche tempo, infatti, si è palesata la pretesa delle vittime di sindacare l’operato dei giudici in modo tanto marcato quanto ingiustificato, perfino indirizzando loro delle pubbliche contumelie e dei rimbrotti, nel caso in cui la sentenza emessa non irroghi le condanne attese o infligga pene ritenute non sufficienti. Si è affacciato così prepotentemente alla ribalta quello che è stato definito il diritto penale “delle vittime”, il cui paradigmatico segno è rappresentato da un parente che, davanti alle telecamere, esclama furente e sdegnato: “Con questa sentenza hanno ucciso x o y (figlio, coniuge, fratello) una seconda volta”. Propiziando così lo sdegno dell’opinione pubblica. Dal lato opposto, si palesa adesso il diritto penale che potremmo chiamare “del colpevole”, in quanto incline a valorizzare la coscienza individuale del reo, rispetto alle esigenze del diritto e dell’ordinamento.
Tuttavia, entrambi i fenomeni, pur muovendo lungo strade opposte – uno verso la vittima e l’altro verso il colpevole – manifestano il medesimo senso fenomenologico: eludere, fino a sbarazzarsene, le ragioni della giustizia che sono sempre pubbliche a mai private, legate cioè ai desideri, alle attese o alle sofferenze dell’individuo.
La cosa potrebbe anche sembrare indolore, ma così non è per almeno due buone ragioni. La prima sta nel fatto che ogni iniziativa, che indebolisce la giustizia, contribuisce a conculcare la persona umana come tale, perché dire giustizia è dire essere umano. E chi svilisce la prima, offende il secondo. L’altra ragione risiede, invece, nella circostanza che privatizzare il diritto penale – come si tenta di fare da entrambi i versanti – significa disconoscerne le fondamenta giuridiche, ridotte a delle dimensioni a disposizione di chi possa lamentare un qualche motivo giustificativo.
Ma perché meravigliarsi? Il vento che soffia nella nostra temperie culturale – lo spirito del nostro tempo – tutto sospinge verso ciò che è stato definito “transumanesimo” che, come è noto, è mosso da un intento preciso: cancellare la persona umana come la conosciamo, inaugurando un mondo oltre-umano, tanto inquietante quanto ormai prossimo.
(*) Tratto dal quotidiano La Sicilia
Aggiornato il 24 marzo 2023 alle ore 10:58