Non serviva il congresso della Cgil per tratteggiare una verità lampante, sebbene l’evento che si è da poco concluso in quel di Rimini abbia reso il fatto ancor più evidente. Ovverosia che Maurizio Landini si è da tempo ritagliato uno spazio importante nella scena politica italiana, nonostante non sia propriamente un leader di partito. Tutt’altro. Ma d’altronde, per avere una capacità di condizionamento delle dinamiche pubbliche, a volte guidare una realtà partitica diviene un handicap piuttosto che un punto di forza. Pensate solamente quale ruolo minoritario si sarebbe ritagliato l’attuale segretario di Corso d’Italia se, qualche anno fa, avesse dato carne e fiato a quell’idea progettuale della “Coalizione sociale”, cioè un contenitore, per la verità mai ben definito nel suo perimetro valoriale, che avrebbe dovuto accogliere le tipiche istanze di una sinistra radicale (o più semplicemente tout court), magari impreziosita da parole nuove infarcite, però, da concetti assai vetusti. E poi, nelle migliori delle ipotesi, il tutto per assumere le sembianze di una realtà dallo spessore elettorale poco al di sopra di un prefisso telefonico. Insomma, una delle tante frattaglie di quel pulviscolo che contraddistingue l’arcipelago della sinistra nostalgica e un bel po’ ideologica.
E a dimostrazione di quanto appena detto, vengono a mio sostegno delle immagini, delle istantanee che danno proprio il senso ontologico dei rapporti e dei tentativi di ricostruire un qualcosa che può definirsi sinistra o, a voler essere ancor più vaghi e fumosi, un’area rossa e progressista. Primo fotogramma. Maurizio Landini tra Giuseppe Conte ed Elly Schlein durante il corteo di Firenze, nel corso del quale il nostro pare assumere il ruolo di paciere o comunque di facilitatore in un dialogo tra il massimalismo statalista grillino e il radicalismo di stampo morale del nuovo corso democratico. Secondo fotogramma. Maurizio Landini che, per primo, sul palco di Rimini riesce a far dialogare le varie sensibilità politiche che dovrebbero comporre il campo largo di lettiana memoria. Come a dire: se mai dovesse concretizzarsi la costruzione di un nuovo centrosinistra, l’unico mastice ideale, e nemmeno poi così carsico, passerà da una piattaforma di rivendicazioni sindacali. E poi il gesto di invitare Giorgia Meloni, che merita una riflessione a parte. Un eroe ha sempre bisogno del suo antagonista per essere riconosciuto come tale, per ottenere quindi l’unico certificato identitario che conta: quello esistenziale. E diciamolo chiaramente: l’attesa mediatica dell’intervento della premier al congresso della Cgil aveva ben altri connotati, rispetto alla dialettica instaurata solo qualche giorno prima in Parlamento tra il primo ministro e la segretaria del Partito Democratico.
Meloni e Landini non hanno incarnato solo la demarcazione apparentemente più scontata, ossia quella tra destra e sinistra, ma a entrambi questa rivalità ha fatto gioco per meglio scolpire il profilo di quella destra e di quella sinistra che i due personaggi hanno in mente. Con delle sorprese assai positive, almeno per lo scrivente. Meloni e Landini rappresentano due metodi diversi di approccio ai problemi reali. E se il sindacalista non fa nulla per attenuare la sua carica ideologica – in questo superato solamente da uno sparuto gruppo di estremisti tra pugni chiusi e bella ciao – la premier si è dimostrata ancora una volta decisamente post-ideologica e, proprio per questo, nettamente tatarelliana, nella misura in cui il compianto ministro dell’Armonia sosteneva che se a un politico di destra viene tolto il pragmatismo di lui rimane ben poco.
Meloni è più realista del re e a tratti perfino liberista in maniera sincera, specie quando ha ricordato i natali della ricchezza in cui lo Stato non ha certamente un ruolo da genitore, semmai quello da ostetrico: meno ci mette le mani, più il pargolo ha buone probabilità di crescere sano e forte. Ripeto: forse è stato per una contrapposizione tra poli opposti ma l’intervento e, ancor prima, la presenza fisica della premier hanno fornito non pochi spunti politici e culturali, forse più di stampo liberale che conservatore. A suggellare tale concetto i fischi, i timidi applausi, il silenzio agghiacciante della platea dinnanzi al ricordo di Marco Biagi e tutto ciò che ha implementato quella dimensione addirittura antropologicamente avversa a Giorgia Meloni. Questo perché da brava liberale ha dimostrato di ricercare il suo negativo e, più in generale, il contraddittorio. Perché proprio di questo un vero liberale ha bisogno: di non praticare il conformismo. Cosa che Meloni è riuscita a fare a Rimini. Sì, anche con la complicità di Maurizio Landini. Non siamo al simul stabunt simul cadent, ma ci avviciniamo molto.
Aggiornato il 21 marzo 2023 alle ore 10:18