Spesso nel caso di assoluzioni di imputati inattese o non abbastanza chiare, la stampa ama ripetere, per sminuirne la portata, che la decisione assolutoria è stata dovuta a un “cavillo”: come dire a un dettaglio insignificante, a una sorta di orpello giuridico che c’è ma che potrebbe non esserci, al punto che si potrebbe farne a meno tranquillamente se non altro allo scopo di veder trionfare le ragioni della giustizia, ostacolata da un simile cavillo (del quale ovviamente, senza capirne molto, si auspica l’abolizione). Conviene allora verificare quale sia la definizione che la Treccani fornisce del termine cavillo: “Ragionamento sottile e fallace, ma con apparenza di verità, con cui si cerca di trarre altri in inganno o di alterare o interpretare speciosamente fatti e parole”. Se questo è il cavillo, proviamo a chiederci se la recente assoluzione di Silvio Berlusconi e di una ventina di altri imputati, pronunciata dal Tribunale di Milano, sia stata dovuta davvero al suo apparire sul proscenio processuale milanese. Forse una tale decisione è stata dovuta a un inganno? O a un ragionamento fallace? O a una alterazione speciosa dei fatti? E inganno, fallacia e alterazione sarebbero dovute ai giudici? Nulla di tutto questo, ovviamente. Il Tribunale di Milano ha assolto Berlusconi e gli altri imputati, perché una ventina di essi, che dovevano essere sentiti, in altri procedimenti, quali imputati di reato connesso (che il codice prescrive siano sentiti con particolari garanzie e che comunque non hanno l’obbligo di dire la verità), invece lo sono stati quali testimoni, senza alcuna garanzia, cioè senza assistenza del difensore, e dopo aver giurato di dire la verità.
Vi pare un cavillo questo? Vi pare un inganno, un’alterazione dei fatti, una strumentale fallacia? No. Semplicemente, si tratta di una violazione di una precisa regola processuale che comporta la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da costoro, sentiti quali testimoni e non quali imputati di un reato connesso. E se c’è questa regola non è per un capriccio incomprensibile del legislatore, ma perché è del tutto evidente come una cosa sia esser sentiti quali testi, altra, ben diversa, quali imputati, e come le dichiarazioni rese in violazione della regola siano esse sì alterate – anzi adulterate – dalla posizione processuale rivestita in modo irregolare. Una regola processuale perciò non è mai un cavillo. Anzi, estremizzando, da un certo punto di vista, tutte le regole giuridiche sono cavilli e l’intero ordinamento giuridico non è che un enorme ordito di cavilli appositamente creati per impedire alle cose di andare come dovrebbero, secondo il sentimento prevalente dei benpensanti.
Fuor dallo scherzo, bisogna capire invece come l’idea stessa di cavillo sia una assurdità se predicata nell’universo giuridico, dal momento che le regole del processo sono regole di giudizio, costituiscono – nessuna esclusa – i binari che il ragionamento giuridico deve seguire allo scopo di giungere a una decisione che si spera corretta (anche se non se ne può avere garanzia): e se quel ragionamento deraglia, non è per un cavillo, ma per aver violato una regola che andava rispettata. In proposito, va aggiunto che il fatto preso in esame dal giudice non si identifica mai in modo completo e senza residui con il fatto storico come si è effettivamente svolto, perché al diritto importa soltanto verificare se quel fatto sia o non sia riconducibile a una fattispecie astratta prevista dalla legge come reato. Il giudice infatti non è uno storico. Quest’ultimo ha il compito di ricostruire in tutta libertà le vicende sottoposte alla sua attenzione in modo più ampio possibile e senza restrizioni, utilizzando cioè documenti, testimonianze e fonti di ogni tipo a disposizione: egli vede il fatto nella sua totalità. Quello invece deve verificare soltanto se alcuni aspetti del fatto avvenuto corrispondano alla figura di reato disegnata astrattamente dalla legge: per questo egli incontra dei limiti nella sua ricerca, che si sostanziano appunto nelle regole processuali le quali prevedono cosa a lui sia lecito fare e cosa invece non lo sia.
Ne viene che quando la formula assolutoria recita che “il fatto non sussiste”, non si vuol dire che storicamente non sia accaduto nulla di nulla, ma soltanto che nel fatto accaduto non sono rinvenibili gli elementi che la legge esige affinché lo si possa considerare reato. Per questo motivo, mentre per lo storico i fatti della storia sono tutti avvenuti, senza eccezione, per il giudice lo sono soltanto se configurino un reato. Ecco perché la stampa farebbe bene non solo ad abbandonare definitivamente ogni riferimento ai cavilli, ma anche a smetterla una buona volta – come spesso accade – di predicare costantemente che le sentenze son tenute a ricostruire la verità dei fatti come sono avvenuti (la storia della mafia, quella degli attentati, quella della Dc). Entrambe le affermazioni sono frutto, in senso proprio, di due “cavilli”: cioè di ragionamenti fallaci.
(*) Tratto dal quotidiano La Sicilia
Aggiornato il 24 febbraio 2023 alle ore 10:31