Alla 59esima edizione della Conferenza di Monaco sulla sicurezza, il principale argomento all’ordine del giorno è stato il conflitto russo-ucraino. Non avrebbe potuto essere altrimenti, vista la scottante attualità del tema. Ma come è prevedibile in tutte le occasioni nelle quali sono tanti i galli a cantare – sono stati 96 i Paesi coinvolti in questa edizione – non si è cavato un ragno dal buco, se non la dichiarazione dell’Unione europea di voler sostenere fino in fondo l’Ucraina, fino alla vittoria finale. Quindi, se non fosse stato già sufficientemente chiaro prima, l’Europa ha svoltato in direzione della guerra alla Federazione Russa fino alle estreme conseguenze. Una buona notizia per Kiev, che può alzare l’asticella della richiesta di più armi all’Occidente. Non soltanto i carri armati che ha ottenuto: adesso sono in ballo i cacciabombardieri e i missili da crociera. Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha messo gli occhi sui caccia multiruolo F-16 “Viper”, di fabbricazione statunitense, ma non disdegnerebbe di ricevere anche altri tipi di jet da combattimento dai Paesi europei. Si tratta dei Typhoon britannici e dei Tornado prodotti congiuntamente da Germania, Gran Bretagna e Italia, ma anche dei Mirage francesi e dei Jas 39-Gripen svedesi.
Ora, è comprensibile che il leader del Paese invaso le provi tutte pur di ribaltare l’esito di una sfida che al momento appare scontato, ma la domanda che rivolgiamo ai nostri governanti non cambia: vi rendete conto di dove stiamo andando? Non prendiamoci in giro, portare l’arma aerea data all’Ucraina significa imboccare una strada senza ritorno verso l’internazionalizzazione del conflitto. Non sarebbe com’è stato per le forniture di mezzi militari e di sistemi d’arma terrestri. Sostituire con aeromobili occidentali l’attuale flotta aerea da combattimento ucraina, composta da velivoli Mig 29, Sukhoy-27 e Sukhoy-25 di fabbricazione russa, implica il diretto coinvolgimento di personale delle forze aeree dei Paesi fornitori. Pensare che in poche settimane i piloti ucraini possano essere addestrati all’uso in combattimento di macchine aeromobili tecnologicamente avanzate, come quelle occidentali, è una colossale sciocchezza. Gli esperti pronosticano mesi, se non anni, per l’addestramento sia dei piloti sia del personale tecnico-logistico chiamato a supportare il regolare servizio dei jet fighter ceduti. Avrebbe avuto senso perseguire la strada, già intrapresa dalla Polonia, della fornitura a Kiev degli aeromobili e dei pezzi di ricambio delle flotte di caccia di costruzione sovietica ancora in possesso dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia, oggi confluiti nella Nato.
È evidente che il problema sia tutto politico: Kiev vuole tirare la Nato dentro il conflitto nella consapevolezza che, nonostante la montagna di armamenti in costante arrivo dall’Occidente, la disparità numerica, a proprio svantaggio, delle forze in campo non consentirebbe la riconquista di tutti i territori occupati dai russi. Zelensky sa ciò che vuole, ma i nostri decisori politici possono dire altrettanto? Il ritornello che l’aiuto incondizionato all’Ucraina sia l’unico mezzo per arrivare a un accordo di pace con Mosca non funziona più.
I fatti dimostrano il contrario, riassumibile in una sola parola: escalation. Con l’aggiunta di un particolare inquietante: la Russia gareggia con gli Stati Uniti per il primato di potenza nucleare al mondo per numero di testate possedute. Riformuliamo la domanda: ha senso la prova muscolare con un nemico che dispone dell’arma finale? A dirla tutta, la comparsa alla Conferenza di Monaco – luogo poco appropriato per intavolare negoziati di pace, visti i precedenti storici – del ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, in veste di portatore di speranza ci ha provocato più di un brivido alla schiena. L’astuto “mandarino” cinese si è speso molto sulla possibilità di fare pressioni su Mosca perché accetti un accordo di pace che parta dal presupposto del riconoscimento dell’integrità territoriale dell’Ucraina. Wang Yi, con discreta dose di spudoratezza, ha messo sul tavolo delle trattative l’impegno del suo Paese a porre fine al conflitto russo-ucraino in cambio di un sostanziale tacito assenso statunitense e dell’Occidente a un futuro atto di forza di Pechino per la conquista dell’isola di Taiwan. Da parte di Wang Yi, il mettere l’accento sull’integrità nazionale dell’Ucraina come valore da salvaguardare ha avuto come retropensiero Taiwan e la fine della sua indipendenza dalla potenza asiatica. Vogliamo così tanto male alla Russia che pur di vederla sconfitta e umiliata siamo pronti ad abbandonare a un tragico destino il piccolo ma tenace avamposto della libertà e dell’anticomunismo nel Pacifico? Dobbiamo essere impazziti, se pensiamo che il gigante cinese possa esserci amico e non costituire la reale minaccia globale degli anni a venire.
Ma tant’è. E allora rassegniamoci all’idea di dover tornare con le nostre uniformi su quel suolo dal quale, ottanta anni orsono, i soldati italiani, ai quali mancò il supporto della Patria ma mai il coraggio, vennero espunti dalle armi nemiche. Facciamolo, in nome della fedeltà atlantica. Facciamolo, perché non potremmo fare altrimenti per come l’Italia è incasellata nelle gerarchie della geopolitica mondiale. Facciamolo, perché il conformismo dal quale siamo affetti ci mostra il dito ma ci nega la vista della luna. Facciamolo, perché in un mondo di regole, che sono quelle scelte dai nostri padri a presidio della democrazia e della libertà, pacta sunt servanda. Ma non si dica che siamo pronti ad andare incontro al disastro perché crediamo che Volodymyr Zelensky sia un eroe della libertà e un sincero democratico. Immaginarlo nei panni del Davide delle Sacre Scritture in lotta per difendere l’Occidente dal Golia moscovita è un falso ideologico. E noi, devoti al culto laico dell’onestà intellettuale, possiamo accettare tutto in nome della realpolitik, ma non le menzogne ipocrite. Un conto è il sostegno all’eroico popolo ucraino, che resiste da un anno sotto le bombe, un altro è la santificazione in vita del leader che lo guida in questa avventura disperata.
Ha ragione da vendere Silvio Berlusconi: Zelensky non è la persona specchiata, campione della libertà, che la narrazione dei potenziali vincitori si è incaricata di edulcorare per tramandarla alle future generazioni. Lui non è il John Wayne del massacro di Fort Apache. E non è migliore dello zar Vladimir Putin che gli ha mosso guerra. Negli anni della sua presidenza, cioè dal 20 maggio 2019, camminando in assoluta continuità con il suo predecessore, Petro Porošenko, non ha smesso di cannoneggiare le terre contese del Donbass che, fino alla data del 24 febbraio dello scorso anno, erano dell’Ucraina a tutti gli effetti. Lui e i suoi non hanno fatto mistero di voler “derussificare” il Sud-Est dell’Ucraina, popolato in maggioranza da uomini e donne di lingua e tradizioni russofone. “Derussificazione”: un modo esotico di definire la pulizia etnica.
Dal 2014 nell’area del Donbass si è combattuta una guerra a bassa intensità che ha fatto oltre 15mila vittime ucraine, delle quali oggi nessun occidentale ha memoria. Eppure, i morti ammazzati ci sono stati ben prima dell’oltraggio russo dell’invasione dell’Ucraina. Il Secondo pacchetto di misure per l’attuazione degli accordi di Minsk, adottato il 12 febbraio 2015, è stato ignorato da Kiev non meno di quanto lo sia stato da Mosca. All’indomani dell’invasione russa, Zelensky non ha esitato a sospendere l’attività di 11 partiti ucraini sospettati di prediligere il dialogo con Mosca rispetto a quello con l’Occidente. Stessa sorte per giornali e televisioni private non allineate alla politica del presidente ucraino. Zelensky non è la vittima ma un corresponsabile del declino della Storia, per come la sta vivendo il mondo che abitiamo. Se per ragioni, a noi ignote, i nostri decisori politici desiderano sostenerlo a oltranza, anche contro ogni evidenza di realismo politico, non significa che noi comuni mortali, costretti a pagare il prezzo più alto per tutto ciò che sta accadendo nel lato orientale del cuore d’Europa, dovremo sentirci obbligati a versare la quota per contribuire alla costruzione di una statua di Zelensky a cavallo, che in posa da condottiero veglia su Roma.
Al Gianicolo il monumento all’indomito Giuseppe Garibaldi non ha bisogno di altre statue equestri che gli facciano compagnia. Per gesto misericordioso verso la verità, non facciamo di Zelensky un novello eroe dei due mondi. Perché non lo è. Anche se a Bruxelles, a Washington e in giro per le capitali d’Europa, tutti o quasi fingano di non saperlo.
Aggiornato il 22 febbraio 2023 alle ore 09:49