Il verdetto delle urne

Il voto per le Regionali di Lazio e Lombardia, di là dagli esiti scontati, offre indicazioni che meritano di essere indagate con spirito critico, avulso dalla partigianeria propria del tifoso. Quindi, niente trionfalismi per la vittoria doppia del centrodestra. Era nelle cose che la coalizione vincesse, vista l’assoluta inconsistenza di tutto il fronte delle opposizioni. A sinistra continua la crisi di idee e di identità che non poteva essere nascosta più a lungo al suo bacino elettorale. Nessuna sorpresa, dunque, che il fronte progressista non abbia saputo, o forse potuto, difendere il risultato positivo ottenuto nel Lazio alle Regionali del 2018. Risultato, peraltro, non veritiero perché conseguito grazie al comportamento suicida del centrodestra di allora, che presentò un candidato (Stefano Parisi) scarsamente simpatetico con l’idem sentire dell’elettorato di centrodestra. Anche il momento era sbagliato per una candidatura Parisi, perché a un’Italia attraversata dell’onda populista e antisistema, fomentata dalla violenza iconoclasta dei Cinque Stelle, sarebbero occorse risposte più convincenti di quelle che avrebbe potuto offrire il semisconosciuto Parisi. E poi, l’errore strategico di consentire che si aprisse un varco a destra con la candidatura-killer di Sergio Pirozzi, barricadiero sindaco di Amatrice. Eppure, nel 2018, Nicola Zingaretti vinse ugualmente di un’incollatura, con una percentuale del 32,93 per cento contro Stefano Parisi fermo al 31,18 per cento. L’outsider Sergio Pirozzi raccolse, nella sua corsa in solitaria, il 4,89 per cento mentre la candidata grillina Roberta Lombardi, per conto di un movimento politico ancora ferocemente anti Partito Democratico e “terzofrontista”, guadagnò il 26,99 per cento. Non servono particolari abilità matematiche per capire che se Pirozzi avesse rinunciato alle velleità da capopopolo per confluire nel listone del centrodestra, come pur gli era stato chiesto, probabilmente in questi ultimi anni avremmo raccontato una storia diversa della Regione che ospita la Capitale d’Italia. Ma tant’è.

Comunque, l’aver rinfrescato la memoria sui fatti del 2018 ci consente di non prendere sul serio le odierne lamentazioni dei vertici del centrosinistra che parlano di Governo della Regione regalato al centrodestra. Dati alla mano, il Lazio non è stato loro e nel quinquennio trascorso l’hanno governato (male) soltanto in virtù della buona sorte che li ha favoriti. Il caso della Lombardia è molto diverso. Lì il centrodestra governa ininterrottamente dall’alba della Seconda Repubblica, cioè da scarsi tre decenni. E lo fa bene. Ciononostante, non v’è luogo geografico e politico in Italia, come la Lombardia, dove più vistoso sia stato lo scollamento dalla realtà della “narrazione” a tinte fosche che in questi anni i media, in maggioranza organici alla sinistra, le hanno reso. A leggere, in questi ultimi tempi, i resoconti sullo stato di salute della coalizione lombarda di centrodestra, si coglieva il senso della catastrofe annunciata, in particolare nell’elettorato leghista e, a cascata, il sospetto di un imminente crollo della segreteria federale di Matteo Salvini. La granitica certezza narrativa della disintegrazione del centrodestra, amplificata dalla scomparsa nelle urne di Forza Italia e dall’impossibilità del partito di Giorgia Meloni di fare fronte da solo alle perdite esiziali subite dagli alleati, era tale che già si almanaccava su chi, dalla folta schiera dei “colonnelli” del Carroccio, sarebbe venuto fuori a prendersi la patata bollente della ricostruzione della Lega dalle sue stesse ceneri. Il voto dell’altro giorno ha spazzato via tutti i lambiccamenti della sinistra “intellò” sconnessa dalla realtà.

Tuttavia, è doveroso constatare come l’astensione, giunta a percentuali allarmanti, abbia avuto una parte in commedia. In Lombardia ha votato il 41,68 per cento degli aventi diritto; nel Lazio il 37,20 per cento. Molto di delegittimante, sul tema della vittoria del centrodestra, si è detto in queste ore, ma le argomentazioni ascoltate non ci hanno convinto. Posto che il mondo dell’astensionismo non sia configurabile, politicamente e sociologicamente, come un universo omogeneo, tra le differenti motivazioni che lo hanno determinato al primo posto vi è stata, ai fini del conferimento del mandato elettorale, l’assenza di riferimenti partitici per il popolo degli abissi – la definizione è del professore Giulio Sapelli – cioè, l’esercito degli sconfitti della globalizzazione economica selvaggia. Quel popolo, radicalmente anti-partitocratico, negli anni scorsi aveva trovato rappresentanza, in prevalenza, nella promessa eversiva del movimentismo qualunquista dei Cinque Stelle di Beppe Grillo e, in misura minore, nel sovranismo anti europeista della Lega di Matteo Salvini. Non fu un caso se il voto alle Politiche del 2018, che non diede a nessuno dei blocchi coalizionali i numeri dell’autosufficienza parlamentare, trovò sbocco nell’accordo di Governo tra la Lega salviniana e il grillismo pentastellato. L’intesa non parve poi tanto innaturale perché entrambe le compagini pescavano consensi nello stesso humus sociale. La delusione avvertita dal popolo degli abissi, che aveva sperato in un cambiamento radicale del sistema economico e istituzionale, non ha trovato corrispondenza, se non marginale, nell’opposizione di Fratelli d’Italia al Governo Draghi.

L’imprinting presidenziale assunto già in campagna elettorale dalla candidata premier Giorgia Meloni non ha scaldato i cuori dei delusi grillini. Da qui il boom delle astensioni. Nel Lazio, i 559.752 voti della lista Cinque Stelle, del 2018, sono scesi a 132.041. In Lombardia, i 933.382 ottenuti nel 2018 dalla lista Cinque Stelle in questa tornata si sono letteralmente dileguati. Sono stati solo 113.229 voti quelli che il partito di Giuseppe Conte ha potuto mettere a disposizione della coalizione di sinistra con il Pd. Tale anomalia oscillatoria sull’altalena elettorale porta a ritenere che non basteranno le promesse da marinaio di Giuseppe Conte, e neppure quelle dei tanti capibastone del Pd, a invertire la traiettoria astensionista.

C’è, certificato dalle urne, un popolo-contro che da anni ha smesso di credere che la politica sia lo strumento giusto per risollevare la propria condizione individuale e di classe e che cerca strade alternative, ancorché compatibili con le regole della democrazia, per risollevarsi. Provare a blandirlo è inutile, oltre che ipocrita. Reprimerlo sarebbe tirannico. E allora cosa può fare il centrodestra che ha nelle mani il bandolo della matassa dell’azione di Governo? Puntare tutto sulla ripresa economica perché sia questa, mediante la riattivazione dell’ascensore sociale, a ridare speranza a chi non crede più di potercela fare con queste regole del gioco. Una buona politica deve impegnarsi a creare le condizioni per favorire la ripresa, rimuovendo tutti gli ostacoli che vi si frappongono. Una vecchia massima sentenzia che gli assenti hanno sempre torto. Non ci provi la sinistra a insinuare che quella del centrodestra sia stata una vittoria mutilata a causa della forte astensione. Attilio Fontana in Lombardia e Francesco Rocca nel Lazio ce l’hanno fatta alla grande. Con il 54,67 per cento dei votanti il primo; con il 53,88 per cento il secondo. Maggioranze assolute che non lasciano adito a dubbi sulla volontà popolare.

Un’ultima considerazione. Matteo Salvini può sentirsi doppiamente soddisfatto. In Lombardia la Lega, benché distante dal 29,65 per cento delle Regionali 2018, ha comunque tenuto mantenendosi a ruota del partito di Giorgia Meloni che i pronostici davano per super vincente. A fronte del 25,18 per cento di Fratelli d’Italia, la Lega ha conquistato il 16,53 per cento, al quale deve aggiungersi il 6,16 per cento del voto d’area ottenuto dalla lista di Attilio Fontana. Ma è il dato laziale che potrà aiutare Salvini a respingere gli attacchi che gli giungono dalla frangia interna al partito dei nostalgici del secessionismo padano. Lì la Lega ha ottenuto un ragguardevole 8,52 per cento, superiore, sebbene di qualche centesimo di punto, al risultato di Forza Italia. La svolta nazionale impressa da Salvini al partito è stata metabolizzata dagli elettorati distribuiti sotto la “Linea gotica” e comincia a dare frutti. La presenza consolidata in tutto il Paese di tre partiti strutturati, vocati a stare insieme nella coalizione di centrodestra, rafforza la natura bipolare del sistema istituzionale nel quale i votanti hanno mostrato per l’ennesima volta di riconoscersi. A riprova, la simmetrica sconfitta dei Cinque Stelle e dei centristi di Carlo Calenda e di Matteo Renzi dimostra oltre ogni ragionevole dubbio che gli italiani pretendono chiarezza sul quadro politico complessivo e per questo non vogliono saperne di una politica atomizzata da un esasperato frazionismo partitico. Quindi, tutto bene sotto il sole? Per chi è di centrodestra, al momento sì. Allora, adelante Giorgia, con juicio si puedes!

Aggiornato il 15 febbraio 2023 alle ore 09:57