Domenica e lunedì prossimi si vota per le Regionali in Lombardia e nel Lazio. I cittadini delle due Regioni chiamate alle urne dovrebbero esprimersi su chi dovrà governare i loro territori per i prossimi cinque anni. Ma non sarà del tutto così. Sulle schede verrà scritto, idealmente, anche il giudizio sui primi cento giorni del centrodestra al Governo della nazione. Stando agli ultimi sondaggi, in entrambe le sfide il centrodestra dovrebbe spuntarla, in parte per propri meriti e in parte per demeriti altrui. Le opposizioni anche in questa circostanza non appaiono sufficientemente credibili agli occhi della maggioranza degli elettori. In particolare, il Partito Democratico si presenta al voto nella versione double-face, che ne consacra l’immagine di forza politica acefala, allo sbando, spogliata di un’identità certa e preda, al proprio interno, di una guerra di bande in lotta per accaparrarsi il vertice del partito.
In Lombardia il Pd corre in alleanza con i Cinque Stelle di Giuseppe Conte contro Attilio Fontana, candidato del centrodestra unito, e contro Letizia Moratti, in campo per se stessa, per gli amici del circolo del bridge, per quelli dei salotti buoni della finanza progressista e per il partitino condominiale di Carlo Calenda e Matteo Renzi. Nel Lazio, invece, il Pd recupera il rapporto con la costola destra del progressismo radical-chic dei sodali di Azione e Italia Viva ma perde per strada i Cinque Stelle, i quali a loro volta corrono in proprio con Donatella Bianchi, volto televisivo dell’ambientalismo. Un tale frastagliamento dell’offerta elettorale a sinistra spiana la strada al centrodestra che dovrebbe impegnarsi allo stremo per perdere, avendo praticamente la vittoria in tasca.
Se questo è il quadro in cui si colloca la tornata elettorale, cosa potrebbe valere la pur doverosa attenzione che intendiamo prestare all’evento? La risposta è: i risultati che le singole componenti della coalizione di centrodestra otterranno dalle urne, sia in Lombardia, sia nel Lazio. C’è chi scommette sulla possibilità che una vittoria straripante di Fratelli d’Italia anche in Lombardia, a spese di Forza Italia e soprattutto della Lega, possa creare fibrillazioni all’interno della maggioranza e, nel tempo, portare alla crisi del Governo Meloni. È così che stanno le cose? In linea di principio l’attuale coalizione non dovrebbe correre alcun pericolo dall’eventuale modifica dei rapporti di forza interni nei territori del Nord, storicamente appannaggio della Lega e di Forza Italia. La certezza proviene dalla spiegazione di cosa sia il centrodestra. La definizione più convincente l’ha fornita Silvio Berlusconi l’altro giorno a Milano, alla manifestazione di chiusura della campagna elettorale di Attilio Fontana. Il vecchio leone così si è espresso a proposito della coalizione di centrodestra: “È un sogno, il nostro, che è cominciato trent’anni fa e che nessuno è riuscito a distruggere”. La vena romantica del personaggio lo induce a parlare di sogno, intendendo verosimilmente riferirsi a un’idea. L’Italia di centrodestra è un’ipotesi di società che, uscita dall’hortus conclusus del mondo berlusconiano che l’aveva partorita nel 1994, presto ha conquistato la maggioranza degli italiani, trasformandosi nell’idem sentire di un popolo in cerca di una identità definita e desideroso di non essere risucchiato dall’amalgama cattocomunista che si andava profilando all’indomani dell’implosione del sistema partitico seguito alla deflagrazione del fenomeno di Tangentopoli. E un’idea è straordinariamente più forte di una combinazione d’interessi. La confluenza di correnti di pensiero differenti ma omogenee, quali il liberalismo classico, il conservatorismo, il sovranismo, ha dato voce e rappresentanza a un blocco sociale – scaturito primariamente dai ceti medi produttivi tradizionali ma ben presto allargatosi alle fasce più deboli della società – che si riconosce in una stessa visione non negoziabile del mondo e del futuro. In sostanza, un bacino elettorale indisponibile a fluttuare verso la sinistra.
Al più, come dimostrano le sequenze dei dati elettorali dal 1994, può esserci stato uno scivolamento più o meno vistoso verso l’astensionismo, ma mai è accaduto uno spostamento di consensi dal centrodestra al centrosinistra. Lo confermano i fallimenti di tutti i tentativi concepiti a tavolino dalla politica politicante di gettare nella mischia sigle partitiche scientemente ambigue per catturare voti a destra da spendere, successivamente, in accordi di Palazzo con la sinistra. Da Futuro e Libertà dei transfughi guidati da Gianfranco Fini a quelli del Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, gli esempi si sprecano. Come a dire: non c’è vita per i politici di centrodestra fuori del perimetro ideologico che li ha originati. È valso per il passato, a maggior ragione varrà per il futuro. Il consenso all’interno del centrodestra si muove secondo la logica dei vasi comunicanti: quando decresce una componente, proporzionalmente prende quota un’altra. L’ultima volta è accaduto nella comparazione tra la Lega e Fratelli d’Italia. Il partito di Matteo Salvini aveva toccato il picco del 34,33 per cento dei consensi alle Europee del 2019. Dopo la drammatica estate del Papeete e la sequela di errori inanellati dal Capitano, i rapporti di forza si sono ribaltati in favore di Fratelli d’Italia seguendo un trend pressoché costante nel passaggio del consenso da una forza politica all’altra. Ciò porta a concludere che un rimescolamento degli equilibri interni, anche nei territori mai precedentemente conquistati da Giorgia Meloni, non provocherà alcuno smottamento nell’alleanza e ancor meno trova fondamento la possibilità di una fuga dalla coalizione di uno o di entrambi i partiti usciti perdenti dal confronto intra-coalizionale di domenica e lunedì prossimi. Ma l’argomento esaustivo sulla tenuta del Governo Meloni, nel caso di vittoria dilagante di Fratelli d’Italia a spese degli alleati, è dato dalle cause reali che avrebbero determinato il pronosticato crollo della Lega nelle sue roccaforti elettorali.
Matteo Salvini è stato sulla breccia fintantoché ha professato quegli intenti programmatici che oggi appartengono a Fratelli d’Italia. Quando dal 2019, il Capitano, tirato per la giacchetta dalla vecchia guardia nordista del suo partito, ha cambiato rotta abbandonando le battaglie sovraniste contro la globalizzazione economica selvaggia che lo avevano visto vincente, il consenso è gradualmente calato. Ora, Matteo Salvini potrebbe fungere da capro espiatorio ed essere sostituito da un altro leader alla guida del partito. Ma da chi? E per fare cosa? Per riportare la Lega alla dimensione di espressione secessionista di una ristretta area geografica del Paese? E chi vi si riconoscerebbe, visti i risultati riportatialle Politiche dello scorso settembre, anche al Nord, dal partito centralista di Giorgia Meloni?
L’unica strada per il Carroccio leghista di provare la risalita nei consensi sta nella pazienza di attendere che l’azione di Governo dello stesso Salvini in un settore strategico quale quello delle infrastrutture dia riscontri positivi. L’opportunità di intestarsi il riammodernamento infrastrutturale del Paese non potrà non avere ricadute importanti anche nel consenso elettorale. Discorso diverso per Forza Italia. Nel caso specifico, il brand non è il programma politico ma la persona stessa del leader. Fin quando ci sarà “Silvio” il partito azzurro riuscirà a stare comodamente sopra la soglia percentuale d’accesso alla rappresentanza parlamentare. Da tempo il vecchio leone si è assuefatto all’idea di non guidare più un partito di massa né di essere il deus ex machina della coalizione. Aver ripiegato nel ruolo di padre nobile del centrodestra gli consente di accettare che Forza Italia sia oggi una realtà minore del panorama partitico, purtuttavia in grado di condizionarne le scelte programmatiche insieme al regolare andamento dell’azione di Governo.
Riguardo alla vincitrice, Giorgia Meloni, anche a lei dovrà fare i compiti a casa dopo la verifica elettorale di questo fine settimana. Una vittoria extra-large, sebbene possa appagare l’umana vanità, non deve indebolire la ferrea volontà dell’“underdog” di vincere la sfida del Governo della nazione, che si gioca sulla lunga distanza. In tale prospettiva, non sarebbe sbagliato aprirsi maggiormente all’ascolto degli alleati che, su svariati argomenti, marcano una più che legittima diversa sensibilità. Giorgia, la ragazza dalla testa dura e dalla tempra d’acciaio, dovrà dimostrare di possedere la saggezza, che i suoi anni le consentirebbero di non avere, nel condividere la vittoria con gli alleati evitando di fare l’asso pigliatutto. Vi è differenza tra l’essere generosi e l’essere prodighi. Nessuno le chiede una prodigalità inopportuna, ma la generosa apertura verso le ragioni degli alleati è la cifra che contraddistingue una persona di qualità destinata a compiere cose grandiose da una scappata di casa trovatasi, per il capriccio della dea bendata, al posto giusto nel momento giusto.
Aggiornato il 10 febbraio 2023 alle ore 16:31