La destra e la scuola che rivogliamo

Il Governo Meloni faccia cose di destra. Ma l’opinione pubblica, che oggi osanna Giorgia Meloni, sia coerente e accetti di buon grado i provvedimenti che l’Esecutivo assumerà in linea con il programma elettorale del centrodestra. Nessun cedimento al “gattopardismo” italico per il quale tutto deve muoversi perché nulla cambi. Stavolta, Giuseppe Tomasi di Lampedusa resti sugli scaffali. Occorre che le acque vengano smosse. Per quanto ai meno attenti possa apparire un ossimoro, per dispiegarsi nel contesto socio-culturale italiano il conservatorismo necessita di un atto rivoluzionario. Abbattere il Moloch del progressismo che domina sulle istituzioni pubbliche nostrane richiede gesti coraggiosi e di grande impatto nell’immaginario collettivo.

Ora, atteso che non vi sia campo della vita pubblica da non essere interessato dall’onda d’urto del cambio di paradigma culturale conseguente alla vittoria della destra, al momento ne individuiamo uno la cui riforma in radice dovrebbe essere una priorità dell’azione di Governo: è il comparto dell’istruzione. Parliamone. C’è un problema strutturale legato all’inefficienza e alla scarsa sicurezza degli edifici scolastici; c’è un problema di qualità dell’insegnamento; c’è un problema di matching tra il mondo della scuola e quello del lavoro e dell’impresa; c’è un problema di dispersione e di abbandono scolastico. Questioni serie, che vengono da lontano e che vanno affrontate al più presto. Ma ve n’è un’altra che è di forma e di sostanza insieme, che ha significative ricadute sul tessuto morale della nazione e riguarda l’approccio comportamentale che i discenti devono avere nei confronti dell’istituzione scolastica. Decenni di cultura progressista hanno condotto il mondo della scuola a essere un luogo di inaccettabile permissivismo. Il dress code è passato dai grembiuli e dalle uniformi a cui erano obbligati gli alunni prima delle rivolte del Sessantotto all’abbigliamento libero, talvolta sconcio, consentito dai dirigenti scolastici in nome dell’inviolabilità del diritto dei giovani di fare ciò che gli pare.

Caro ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, le andrebbe di emanare una circolare che imponga agli studenti di presentarsi in classe con uno stile diverso da quello della discoteca? Si potrebbe tornare ad associare la parola sobrietà al concetto di frequenza scolastica? Si obietterà: così si torna indietro. E che male c’è a fare retromarcia se la strada finora percorsa è stata sbagliata? L’abito è forma, tuttavia prelude a una sostanza. Nel caso della scuola, dietro l’abbigliamento consono al decoro del luogo si nasconde la giusta postura che i giovani devono assumere nel frequentarla. Serietà, compostezza, rispetto delle gerarchie, continenza nelle esternazioni delle pulsioni corrispondono a concetti che devono ritrovare cittadinanza nell’ambito educativo.

La riflessione si estende all’uso improprio che i giovani fanno delle nuove tecnologie della comunicazione. Va bene l’accesso alle reti social, ma non quando interferiscono con le lezioni in classe. L’uso dei cellulari dovrebbe essere sempre rigorosamente proibito durante l’orario didattico. Ancor più, le riprese video di ciò che avviene in aula. Il momento dell’apprendimento non deve trasformarsi in un infinito reality. Le vite degli alunni non dovrebbero essere ingabbiate in un insulso The Truman Show. E gli studenti non dovrebbero cadere nella trappola della teatralizzazione dell’esistenza, fingendosi attori che interpretano le loro vite invece di esserne gli autori. Se tutto diventa spettacolo, anche il bullismo contro i docenti si trasforma in materiale di scena. Si prenda il caso verificatosi in una scuola media superiore di Alessandria. Una docente disabile è stata presa di mira da una decina di studenti che prima l’hanno legata alla sedia e poi hanno preso a calci la sedia stessa, il tutto tra risate di scherno e schiamazzi. Gli allievi sono stati sanzionati con un provvedimento di sospensione, successivamente commutato in “lavori socialmente utili”, consistenti nella pulizia delle classi durante gli intervalli. Troppo poco. Per un comportamento da codice penale la bocciatura sarebbe stata una sanzione più adeguata a mettere in riga i teppisti. Su questo fronte siamo per la “tolleranza zero”, che non dovrebbe limitarsi ai comportamenti violenti dei giovani ma dovrebbe estendersi agli atteggiamenti prepotenti e arroganti dei genitori che con sempre maggiore frequenza s’intromettono a sproposito nel rapporto insegnante-studente. Chi vive al Sud conosce bene la realtà delle “zone franchedell’illegalità, dove neanche la scuola è esentata dal rispondere a logiche di sopraffazione inaccettabili in un contesto appena civile. Sono all’ordine del giorno i casi di docenti malmenati da genitori, perché giudicati colpevoli di aver redarguito i loro “innocenti” pargoli. Così non va. Una norma che sanzionasse specificamente la violenza contro i docenti nell’esercizio delle loro funzioni sarebbe un bel segnale per il ripristino della sacralità laica dell’istituzione scuola e della funzione pedagogica del docente nella formazione della personalità del giovane.

Sulla metodologia dell’insegnamento va detta qualcosa che farà saltare dalla sedia i tanti progressisti che popolano il mondo dell’istruzione. La scuola è giusto che insegni a riflettere, ma deve rimanere luogo di trasferimento delle conoscenze. E per quanto sia duro da ascoltare, conoscenza è nozione. Già, il vituperato nozionismo colpito e affondato dal sociologismo sessantottino. Ma cosa se ne fa una società chiamata a essere competitiva in un mondo globalizzato di una schiera di giovani che criticano tutto senza possedere solidi fattori cognitivi d’investigazione della realtà? Nulla. Peggio: quando non genera mostri, partorisce in quantità industriale idioti dal piglio saccente. Apprendimento deve restare la parola chiave della fase educativa. Nessuno più di noi può sostenere l’importanza di sviluppare nel giovane l’esercizio del pensiero critico e dell’acquisizione di categorie interpretative funzionali alla comprensione della realtà. Ma questa facoltà non può essere disgiunta dal necessario rapporto di concatenazione logica con la fase propedeutica dell’apprendimento, anche mnemonico, di conoscenze teoriche. Un semplice test aiuterebbe a tracciare un quadro puntuale del grado di apprendimento dei fondamentali nella scuola italiana. Si verifichi quanti tra gli studenti conoscono le strofe dell’inno nazionale, oltre quella cantata negli stadi di calcio; quanti sanno decrittarne il significato politico-ideale; quanti conoscono gli autori del testo e della musica dell’inno e sanno datarlo storicamente e illustrarne il contesto nel quale venne composto. L’esito del test vi deluderà, ma non vi sorprenderà. Da decenni l’apprendimento nella scuola d’impronta progressista (particolarmente nel ciclo delle secondarie di secondo grado) viaggia su due grandi direttrici connesse alla ricerca: la ricerca sperimentale classica (metodo ipotetico-deduttivo) e la ricerca-azione (metodo euristico partecipativo). La prima è tendenzialmente indirizzata alle scienze della natura, la seconda alle scienze dell’uomo. Si utilizza lo strumento metodologico della ricerca-azione per indirizzare gli studenti a comprendere la complessità dei sistemi condizionati dall’intervento umano e a prendere consapevolezza della fluidità delle ipotesi progettuali. Se lo scopo della ricerca sperimentale è la comprensione della realtà, lo scopo della ricerca-azione è il cambiamento che può riguardare le persone, le relazioni, il contesto. Il processo euristico si affida all’intuito e allo stato temporaneo – e relativo – delle circostanze al fine di generare nuova conoscenza. Tuttavia, tale metodologia presenta importanti controindicazioni, a cominciare dalla negazione del distacco che il ricercatore dovrebbe vivere dalla realtà studiata. Ne consegue che, mancando delle informazioni sufficienti a formarsi un giudizio autonomo sui fatti oggetto di studio, lo studente finisca per assimilare una conoscenza mediata dal punto di vista soggettivo, talvolta partigiano, del docente. È attraverso l’utilizzo di questo metodo che la scuola si è trasformata in una lavanderia per cervelli ad uso del politicamente corretto.

I progressisti sono stati astuti nel criminalizzare l’apprendimento nozionistico nascondendo di proposito il suo portato rivoluzionario. Chi “conosce” farà più strada di chi straparla mancando di solide basi teoriche. In concreto, è di destra chiedere che la scuola torni a essere nozioni, regole e disciplina? Sì, lo è. E non ce ne vergogniamo. Non abbiamo bisogno che la sinistra agiti lo spauracchio dell’autoritarismo, piuttosto ci preme che la scuola torni a essere autorevole. Solo così potrà essere libera e, con essa, i giovani che l’avranno vissuta potranno candidarsi a partecipare a quell’umanità migliore di cui tanto il futuro della nazione quanto il suo presente hanno disperato bisogno.

Aggiornato il 17 novembre 2022 alle ore 09:52