No Rave, no party

La tracotanza della sinistra italiana non ha limiti. Pretende che il Governo Meloni, per essere legittimato dall’avversario politico, debba abiurare le sue idee e i suoi programmi? Il popolo, che in una democrazia è il sovrano, vuole che si cambi verso alla società. È un ammonimento chiaro a chi ha ricevuto il mandato a governare: la destra faccia la destra, anche se oggi lo schema dicotomico destra/sinistra è stato superato dalla contrapposizione conservatorismo/progressismo. Il cambio di paradigma consumato sul piano valoriale, collocato fuori del raggio d’azione della politica, impedisce che una serena dialettica democratica produca sintesi condivise. Per intenderci, la tutela degli interessi quotidiani dei cittadini ammette che tra posizioni politiche opposte vi possano essere delle “interlocuzioni” – parola orrenda oggi di uso frequente – in grado di favorire soluzioni negoziate.

Invece, nel campo dei valori che sorreggono visioni antitetiche di società non vi possono essere compromessi. O si sta da una parte o dall’altra, tertium non datur. Cosicché, nella vicenda delle iniziative assunte dal neoministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, per reprimere il fenomeno dei rave party, non è previsto tenere un piede in due staffe. I conservatori non dovrebbero che elogiare l’intervento del Governo e accogliere con favore la decisione di integrare il reato di “Crollo di costruzioni o altri disastri dolosi” (articolo 434 del Codice penale) previsto nel Capo dedicato ai “delitti di comune pericolo mediante violenza”, con una formulazione aggiuntiva la quale espressamente sanziona l’Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica (articolo 434-bis).

Non è un problema di compressione dei diritti inviolabili del cittadino ma di difesa della legalità nell’interesse generale della collettività. I progressisti fingono di non capirlo e inscenano lo sdegno per l’ipotetica deriva autoritaria imboccata dal neonato Governo di centrodestra; gridano all’incostituzionalità della norma varata; vaticinano foschi presagi per le odierne e future sorti degli italiani. Non c’è da meravigliarsi. Se un colpo di piccone ha scosso il loro castello di verità farlocche, è normale che la reazione sia a dir poco furibonda. Tuttavia, il fatto che si arrabbino non dà loro ragione. Semmai, la cosa che maggiormente infastidisce è la modalità di argomentazione delle proteste. Pur di non perdere la presa sul condizionamento delle opinioni della gente comune i progressisti sfidano il buonsenso e la decenza nell’illustrare una realtà che non esiste.

I rave party non sono quel luogo di letizia e di empatica socializzazione che la sinistra descrive. E neppure sono i luoghi dell’arte e dell’incrocio virtuoso tra espressione artistica e sensibilità del pubblico. Ciò che si ascolta in quei raduni è musica che nasce dalla techno, contaminata dalle sonorità soul e funk della musica afroamericana degli anni Sessanta e incrociata con il punk degli anni Ottanta. La capacità straniante del messaggio rave è nel suono amplificato dei bassi, propedeutico al raggiungimento di uno stato prolungato d’eccitazione collettiva.

Il rave è sinonimo di ribellione ripiegata su se stessa. Non ha nulla di rivoluzionario, ma ha tutto di escludente. Lo scopo del convergere di una massa d’individui in uno stesso luogo è nell’affermazione della volontà di distruggere l’ordine esistente; è nel trionfo del nichilismo. Lo dichiara un ispirato raver nel suo manifesto: “Il nostro stato emotivo è l’estasi. Il nostro nutrimento è l’amore. La nostra dipendenza è la tecnologia. La nostra religione è la musica. La nostra moneta è la conoscenza. La nostra politica è nessuna. La nostra società è un’utopia che sappiamo non sarà mai”. La parola “rave” deriva dall’inglese to rave che significa “parlare con eccitazione” ma anche “delirare”, “andare in estasi”. Il fatto che il registro ritmico sia scandito dal suono costante delle percussioni e che il ballo incessante sia stimolato dall’abuso di alcol e dall’uso di sostanze stupefacenti enteogene, come la canapa indiana e l’ecstasy-mdma (metilenediossimetanfetamina), e allucinogene (Lsd), avvicina la trasgressione rituale del“rave” ai culti dionisiaci dell’antichità, nei quali il passaggio agli stati di coscienza dilatati avveniva attraverso la trance estatica.

Se tutto si limitasse a questo, i rave party sarebbero accettabili e perfino interessanti da studiare sotto il profilo dell’etnologia. Ma si tratta di raduni illegali, riconosciuti tali non per effetto della farraginosità della burocrazia nel rilasciare autorizzazioni allo svolgimento di pubbliche manifestazioni ma per scelta politica, consustanziale all’idea di ribellione contro il sistema regolato sulla base dei rapporti di forza capitalistici e della morale borghese. Per i raduni vengono occupate aree private delocalizzate o abbandonate, meglio se edifici industriali in disuso, allo scopo di colpire al cuore il fondamentale diritto alla proprietà privata. Per la durata dell’evento si crea una Taz (Zona temporaneamente autonoma) autogestita da una comunità regolata da codici comunicativi tribali. L’autoproduzione di musica è la sfida alla produzione commerciale, al denaro, ai presìdi che sistematizzano le relazioni umane nelle società ordinate dalle leggi. I valori etici che fondano la società sono rifiutati; l’alienazione dalla condizione individuale rende la “filosofia” rave una sorta di messianesimo ateo, privato del fine escatologico. L’egualitarismo pauperista dei “raver” perde il connotato politico-ideologico originario per trasformarsi nello stilema di una nozione rivisitata di Utopia.

Il raver si ritiene legibus solutus. La libertà del raver è innanzitutto negazione delle regole, dei valori tradizionali, delle dinamiche di una comunità originata dal pactum societatis. Se tutto questo ai progressisti sta bene è affare loro, ma può stare bene ai conservatori? È concepibile che la libertà di un raver si materializzi nell’atto di distruggere quella altrui? Dov’è finita la massima kantiana secondo cui “la mia libertà finisce dove comincia quella dell’altro”? Se un raver può prendere, depredare, drogarsi, compiere abusi di ogni genere con il lodevole pretesto di evolvere i propri stati emotivi senza che nessuno possa dire alcunché, è riconosciuto alla comunità offesa dall’aggressione del raver il corrispondente diritto alla legittima difesa? Il laissez faire, cifra tristemente distintiva della gestione “Lamorgese” (nel senso di Luciana Lamorgese) del ministero dell’Interno nei Governi Conte II e Draghi, piacerà alla sinistra, ma non può piacere a un conservatore.

Non è oltremodo ammissibile che della weltanschauung conservatrice si dia la versione caricaturale alla “Law & Order”, perché l’Italia del centrodestra non è l’ambientazione di una fiction hollywoodiana. Neppure bisogna farsi ingannare dalla finta indulgenza dei buonisti per i quali ogni reazione vada stemperata, ogni sanzione edulcorata e ogni malefatta giustificata. Il provvedimento con il quale il ministro Piantedosi ha messo un punto all’annosa questione dei rave party potrà anche essere riveduto e affinato nei suoi aspetti tecnico-procedurali nel corso dell’iter parlamentare di conversione in legge, ma il principio che lo ha ispirato resta fermo e inemendabile. E i “poveri” ragazzi raver, desiderosi di sballo e di anarchia, come faranno a sentirsi felici? Vogliono continuare a ballare e a divertirsi? Lo facciano, ma rispettando le regole. Il che significa chiedere permessi alle autorità preposte per adunarsi in luogo pubblico; rispettare tutte le norme di sicurezza a presidio dell’incolumità e della sanità pubblica; non violare, distruggere o solo danneggiare la proprietà privata; non consentire che circoli droga; non commettere abusi, oscenità e altri reati.

Se poi pensano che solo la rottura violenta degli schemi provochi appagamento, perché per una volta non provano a vedere che effetto fa il rispetto delle regole? Che possa anche quello rivelarsi uno sballo?

Aggiornato il 04 novembre 2022 alle ore 09:43