Berlusconi e la legge di Lincoln

Sento e leggo le teorie più astruse in merito alle recenti agitazioni politiche di Silvio Berlusconi, che qualcuno ancora definisce con affetto il leone di Arcore. A mio avviso, le cose risultano assai semplici e umanamente piuttosto comprensibili. In estrema sintesi, pur avendo galleggiato sulla cresta dell’onda ben più di tanti altri suoi colleghi che sono riusciti a raggiungere l’agognata stanza dei bottoni, il Cavaliere non è comunque riuscito a sottrarsi alla famosa legge di Lincoln. Quella che si evince da un celebre detto del grande presidente americano: “Si possono ingannare tutti per un po’ di tempo e alcuni per tutto il tempo; ma non è possibile ingannare tutti per tutto il tempo”.

Ecco, dopo aver promesso una miracolosa rivoluzione liberale, che avrebbe dovuto sciogliere la briglia della nostra economia da troppi anni ingessata da tasse e burocrazia, non è praticamente accaduto quasi nulla di rilevante, generando un graduale e continuo allontanamento degli elettori, in gran parte rimasti nell’area di centrodestra, da Forza Italia e dal suo leader. Un Berlusconi che per evitare di soccombere all’andazzo della cosiddetta alternanza obbligatoria – secondo una brillante definizione del mio grande e compianto amico Giulio Savelli – è riuscito a rallentare l’inevitabile processo di marginalizzazione politica, aumentando a ogni tornata elettorale il livello delle promesse: dalle dentiere per tutti alle pensioni per le casalinghe; dall’abolizione dell’Imu alla Flat tax eccetera, eccetera.

D’altro canto, già durante le consultazioni per formare il Governo nel 2018 egli aveva dato imbarazzanti segni di nervosismo, dovuti essenzialmente alla perdita di centralità nella coalizione, inscenando la pantomima del professore che mimava la lezioncina impartita all’allievo Salvini mentre quest’ultimo, come esponente dell’allora primo partito del centrodestra, parlava a nome della stessa coalizione. Idem con patate nelle recenti consultazioni, nelle quali la spasmodica e ossessiva ricerca di protagonismo si è molto incattivita in modo inversamente proporzionale alla ulteriore perdita di consensi registrata nelle elezioni del 25 settembre.

Una ricerca di protagonismo che segnala tutta una serie di problematiche emotive e psicologiche che hanno marginalmente a che fare con le più elementari logiche politiche che spingono i partiti più piccoli di una coalizione a cercare una qualche forma di visibilità che non li faccia appiattire sulle posizioni di chi tiene in mano le redini della coalizione medesima. Peraltro, dopo essersi circondato di una corte di adulatori di professione, sempre pronti a cantare “meno male che Silvio c’è”, ipotizzando che Berlusconi avesse di base debolezze psicologiche di natura narcisistica, ciò non è certo servito a contenere un ego divenuto chiaramente debordante.

Continuamente rinforzato da un entourage non proprio esaltante, l’ego dello statista di Arcore, alle prese con la prima donna della Repubblica nel ruolo di premier, lo ha spinto a comportarsi come un toro nell’arena di fronte a un drappo rosso, con l’unico risultato di rendergli ancora più indigesto il rospo da ingoiare. In questo frangente il confronto tra la glaciale riservatezza di Giorgia Meloni e la scomposta offensiva politica di Berlusconi, se così vogliamo definirla, si è risolta con una impietosa disfatta per l’anziano leader. Altro che strategia di lungo termine, quindi.

Aggiornato il 25 ottobre 2022 alle ore 12:09