Leggo che il vicepresidente del Csm, avvocato Davide Ermini, lancia l’allarme sulle gravi carenze degli organici della magistratura. Le sue parole sono chiarissime: “Nonostante i concorsi già banditi, considerati i magistrati annualmente in uscita per anzianità, dimissioni o altro, e il fatto che ai prossimi vincitori di concorso saranno conferite le funzioni non prima del 2024, si arriverà presto a una scopertura di oltre il 20 per cento”.
Meglio di così non potrebbe dirsi. Si aggiunga un ulteriore dato, che rende ancora più allarmante il quadro: noi siamo tra gli ultimi in Europa per numero di magistrati ogni centomila abitanti. Se a queste inesorabili statistiche aggiungiamo le carenze – se possibile ancora più gravi – del personale amministrativo, comprendiamo bene le vere ragioni del disastro della giustizia italiana in termini di irragionevole durata dei processi.
Questa situazione endemica non sembra tuttavia scuotere più di tanto la politica; ed anzi, sotto la spinta incessante della stessa magistratura, si preferisce affrontare gli interventi sulla durata dei processi intervenendo sulle regole processuali, preferibilmente su quelle poste a garanzia dei diritti di difesa. Ecco allora che la lentezza pachidermica dei processi sarebbe causata da intollerabili regole ipergarantiste, cui occorre porre fine. Per esempio, gli avvocati si ostinano a pretendere, pensate un po’, che il giudice che pronuncia la sentenza sia il medesimo che ha sentito i testimoni.
Il principio in verità è apertamente fissato dal codice di rito, che impone, se cambia il giudice, la ripetizione della istruttoria. Ma ci ha pensato la giurisprudenza a “riscrivere” quella norma, riducendo quella fondamentale regola (di buon senso, prima che di garanzia) al suo esatto contrario. Di regola, in caso di mutazione del giudice, non si ripete un bel nulla, salvo cervellotiche e residuali eccezionalità. Non possiamo mica perder tempo a rifare tutto da capo. Avrà ben più diritto il giudice di cambiare sezione, o funzione, o Foro, del cittadino ad essere giudicato dal giudice che ha istruito il processo, giusto?
Lo stesso vale per le impugnazioni. Troppi appelli, si ripete ossessivamente, troppi ricorsi per Cassazione, bisogna seminare insidie e trappole di ogni genere sul percorso del diritto delle persone ad un secondo grado di giudizio (che modifica, statistiche alla mano, quasi il 40 per cento delle sentenze di primo grado), ed al vaglio di legittimità. Ma un po’ di giudici di appello e di Cassazione in più, magari? No? Niente da fare.
Ora, le verità denunciate da Ermini ci fanno capire che se pure il nuovo Governo decidesse il giorno dopo il suo insediamento una drastica implementazione degli organici, dovremmo attendere cinque o sei anni per averne i primi benefici. Dunque, noi ci permettiamo di indicare al futuro Governo una strada certa, immediata, sicura, che non risolverà certo il problema, ma potrà darci una significativa boccata di ossigeno. Eviti il nuovo Governo di richiedere al Consiglio superiore della magistratura la messa fuori ruolo, come accade sistematicamente in questo Paese da molti decenni, di quei 200 magistrati – qualcuno in più, qualcuno in meno – che per misteriose ragioni ci ostiniamo a spostare immancabilmente presso l’esecutivo, e per la gran parte presso il Ministero della Giustizia.
Si tratta di una pratica ignota – certamente in queste dimensioni e con questa sistematicità – in ogni altro Paese civile, e se ne comprende bene la ragione, visto che le democrazie funzionano solo se si garantisce la più rigorosa separazione dei poteri. Qui invece abbiamo una commistione fisica tra potere giudiziario e potere esecutivo, con evidente squilibrio verso il primo. Ed infatti la Magistratura italiana tiene moltissimo a questo immancabile rito di potere, con i governi che a secondo del proprio colore prediligono questa o quella corrente, ed i magistrati che, acquisendo ruoli apicali di decisivo peso politico (capo di Gabinetto, capo dell’Ufficio legislativo, capo del personale) entrano a piedi uniti nella concreta gestione e nel reale orientamento della politica giudiziaria del Paese.
Non credo sia così difficile comprendere ciò di cui sto parlando, e che da sempre noi penalisti denunciamo, sempre inascoltati. Ecco una grande occasione per il nuovo Governo, e per il nuovo Ministro della Giustizia. Sentiamo parlare di grandi propositi di riforma liberale della giustizia, e ne siamo lietissimi. Intanto, cominciamo da qui. Questo non richiede percorsi di riforma. Basta che il Ministro della Giustizia si limiti a non richiedere distacchi di magistrati presso il proprio dicastero, lasciando costoro ad assolvere alla funzione altissima per esercitare la quale hanno vinto un concorso, evitando di sguarnire organici già esangui. Insomma, questo allarme rosso c’è o non c’è? Attendiamo fiduciosi.
(*) Presidente Unione camere penali italiane
Aggiornato il 12 ottobre 2022 alle ore 11:24