E ora riprendiamoci il Paese

Amici liberali e moderati, che sono queste facce? Non siamo a un funerale, ma a una festa. La caduta del Governo Draghi è una bella notizia. Si torna a votare. Finalmente! Non è ciò che il popolo di destra avrebbe voluto dal giorno dopo le elezioni del 2018? In quella circostanza le urne, pur non assegnando ad alcuno una maggioranza numericamente chiara, avevano fornito un’indicazione inequivocabile che il “Colle” ha smaccatamente ignorato: l’Italia è maggioritariamente di centrodestra. Adesso, nonostante i tentativi del Presidente della Repubblica, al limite della disperazione, di non restituire la parola al popolo sovrano, si va a votare. E, per i sinceri liberali, cosa c’è di più bello e rinfrancante di apprendere che la democrazia, pur con le sue liturgie talvolta barocche e incomprensibili, resiste e lotta insieme a noi per tenerci al riparo da suggestioni autocratiche?

Per favore, diteci che non vi siete fatti ottundere i sensi e la ragione dalla leggenda metropolitana dell’uomo della Provvidenza che ci salva? Diteci che neanche per un istante avete creduto al “miracolo draghiano”, ma che vi è rimasta sufficiente dose di discernimento per saper valutare cosa Mario Draghi abbia fatto di buono per il Paese e cosa invece abbia “cannato” a spese degli italiani. Parliamoci chiaro: il problema dell’elaborazione del lutto per la caduta di Draghi non è cosa che riguardi il centrodestra. Semmai, è una tegola precipitata sulla testa del Partito Democratico che ha barato fino all’ultimo pur di tenere in piedi un Governo del quale, per volontà del Capo dello Stato, era socio di riferimento benché fosse minoranza nel Paese. Per come la vediamo noi, si dovrebbe cerchiare in rosso sul calendario il 20 luglio perché è stato il giorno della nuova liberazione. Sono 11 anni che l’Italia non conosce il bene di un Governo che sia espressione della volontà popolare. L’ultimo fu con Silvio Berlusconi. E sappiamo com’è finita e con quale accanimento i poteri esterni, grazie alle macchinazioni più o meno occulte delle “quinte colonne” interne al Paese, l’abbiano sfrattato.

Il prossimo 25 settembre abbiamo la possibilità di riprenderci il futuro. Non sprechiamola. Gli italiani hanno bisogno di credere in una coalizione che non si limiti a vincere le elezioni ma sappia governare. E per governare intendiamo letteralmente: risolvere i problemi della gente a valle, nel momento in cui essi si palesano, ma anche a monte, dove tali problemi si generano. Perché questa precisazione? Abbiamo il timore che la parte moderata del centrodestra possa perdersi dietro la narrazione artefatta della sinistra che si prepara a raccontare agli elettori che la fine prematura del Governo Draghi sia stata una sorta di “coitus interruptus”. Cioè, che il migliore dei governi possibili sia stato bloccato sul più bello, proprio nel momento nel quale stava per dare al Paese tutte quelle risposte (tante) che in 17 mesi di permanenza al potere non ha saputo o non ha voluto dare. Finora abbiamo sentito solo la voce di Giulio Tremonti levarsi per dire che Mario Draghi di errori ne ha commessi parecchi e che la sua uscita di scena ha del grottesco. Occhio, che il giudizio sull’operato a Palazzo Chigi dell’ex capo della Banca centrale europea sarà uno snodo centrale della pur brevissima campagna elettorale che ci attende.

Il Partito Democratico, orfano del “campo largo” con i Cinque Stelle, dovrà ripiegare sull’alleanza raccogliticcia con i cespugli del centro. Non avendo alcun argomento plausibile per giustificare una tale scelta agli occhi del proprio elettorato, s’inventerà la favola di essere il depositario del testamento politico di Mario Draghi. Ragione per la quale diamoci un taglio con i sensi di colpa e l’excusatio non petita del “non siamo stati noi a farlo cadere ma è il Pd che ci ha teso una trappola per non proseguire insieme il cammino senza gli indecifrabili del Movimento Cinque Stelle, fino al compimento della legislatura”. Raccontiamo alla gente la verità: Mario Draghi voleva tagliare la corda e ha cercato tutti gli espedienti possibili per uscire di scena. Voleva mollare, e non perché si fosse stufato di essere il padrone assoluto della scena politica italiana. Ha deciso di andarsene perché ha capito che non avrebbe avuto le soluzioni e le risorse adeguate a fare fronte alla massa di eventi negativi che si preparano ad abbattersi sull’Italia dal prossimo autunno.

Le prime avvisaglie di protesta sociale che si sono materializzate sotto le finestre di Palazzo Chigi – vedasi la rivolta dei taxisti – lo hanno convinto a fare i bagagli prima che fosse troppo tardi. Bisogna dirlo alla gente: non c’è niente d’inspiegabile nella decisione di Mario Draghi di far crollare il Governo e con esso la legislatura. C’era di mezzo una reputazione personale da salvaguardare e il rischio di restare travolto dagli eventi. Draghi ha deciso di salvare se stesso. È umano, ma non facciamolo santo per questo. Anche la scelta di Silvio Berlusconi di staccare la spina a questa farsa ha una sua nobiltà e restituisce il senso alto della politica che appartiene al vecchio leone di Arcore. Far passare il leader di Forza Italia per un povero vecchio, incapace d’intendere e di volere, ostaggio di una compagnia di manigoldi che lo avrebbero indotto a sbagliare raccontandogli cose false sul Governo Draghi, è una cosa schifosa e vile. Berlusconi ha colto il momento nella consapevolezza che il Governo Draghi non avrebbe avuto la forza di reggere l’urto della crisi in arrivo. Per non tagliare di netto con l’esperienza precedente, ha proposto una via d’uscita a Draghi perché l’inquilino del Quirinale intendesse: noi ci stiamo a continuare con un Draghi bis, a patto che non ci siano dentro i guastatori di Giuseppe Conte e che si riveda il programma di Governo, riequilibrandolo nelle parti che rischiano di creare insoddisfazione e disagio per la popolazione. Mario Draghi ha detto no. Enrico Letta ha detto no, consapevole che un nuovo Governo di unità nazionale senza i Cinque Stelle e con tanto centrodestra di governo avrebbe relegato il Pd al ruolo di comparsa, Sergio Mattarella ha detto no. La querelle su chi abbia staccato la spina finendo col mettere le dita nella presa di corrente finisce qui. Deve finire qui.

Adesso si pensi al programma da sottoporre agli italiani. Ma che sia un discorso di verità e, soprattutto, si pensi a quale squadra mettere in campo. Già, perché conoscere chi sarà candidato a dare seguito al programma elettorale è importante quanto il programma stesso. Forse anche di più. Perché, come diceva un padre del comunismo: le idee camminano sulle gambe degli uomini. Se quelle gambe sono sbilenche o si muovono nella direzione sbagliata, si possono avere le migliori idee di questo mondo ma non si va da nessuna parte. Al più, si va a sbattere. A questo proposito, cavallerescamente, dobbiamo un sentito ringraziamento ai ministri Mariastella Gelmini, Mara Carfagna e Renato Brunetta e al senatore Andrea Cangini che hanno avuto il buon gusto di togliere il disturbo lasciando Forza Italia prima della composizione delle liste elettorali. E non dopo. Speriamo che altri malpancisti abbiano la medesima dignità. Il male oscuro della compagine moderata del centrodestra è di aver dato spazio troppo spesso a uomini e donne che, una volta eletti senza alcun merito personale, hanno voltato le spalle agli elettori saltando dall’altra parte della barricata. La lista è lunga e di questo malcostume ne abbiamo piene le tasche.

Berlusconi, il generoso e misericordioso, lo tenga a mente quando ci sarà da compilare le liste dei candidati. Vale per Forza Italia e vale per la Lega. Matteo Salvini si guardi in casa sua e trovi la forza di dire ai nostalgici dei voti presi a destra e spesi a sinistra che per loro non è più aria. Se schifano tanto la destra che li ha votati, c’è Carlo Calenda che ha aperto una casa d’accoglienza – lui avrebbe preferito un hotspot sperando in un esodo più consistente da Forza Italia – per ospitare i profughi del centrodestra. Sfruttino l’occasione e si tolgano dai piedi. Qui non si vuole minacciare nessuno, ma un avvertimento è d’obbligo. I leader del centrodestra non ci facciano trovare stampati sulle schede elettorali nomi di candidati notoriamente pronti il giorno dopo a buttarsi a sinistra, perché stavolta la scheda potrebbe tornare intonsa al presidente di seggio. Detto questo, avremo modo di analizzare al microscopio il programma che i tre leader del centrodestra tireranno fuori. Per ora, ci basta una risposta secca, un sì o un no a una domanda che non ammette subordinate: questa mano elettorale la volete vincere o no?

Aggiornato il 24 luglio 2022 alle ore 09:06