La scuola italiana: l’eccezione che conferma la regola

L’insegnamento, per me, è il più bel lavoro del mondo. Nella mia ormai quarantennale esperienza ho avuto modo di conoscere e apprezzare professori straordinari. Ho iniziato il percorso come docente per puro caso. Si erano esaurite le graduatorie per le “discipline e tecniche commerciali e aziendali” e si era aperta la concreta possibilità di essere assunto con incarico annuale. Io, però, ero interessato a guadagnare qualche soldo prima di ottemperare al servizio di leva che avevo rinviato per motivi di studio fino alla laurea.

Iniziai la professione di insegnante nel lontano 1983 con un incarico annuale direttamente dal Provveditorato agli studi, nelle more della chiamata alle armi per il servizio di leva post-laurea. Per una serie di coincidenze, ebbi a completare l’anno scolastico e per la prima volta fui nominato commissario alla maturità in un Istituto tecnico commerciale storico di Roma, il Quintino Sella, ubicato in prossimità della Sinagoga e all’interno del “Ghetto”.  Concluso il servizio di leva, scelsi come attività l’insegnamento che permetteva di esercitare anche la libera professione.

L’undici luglio scorso si sono conclusi gli esami di Stato, forse gli ultimi ai quali parteciperò in quanto sono pensionando. Gli studenti presentavano evidenti lacune nelle varie discipline. La causa? La principale è la didattica a distanza, senza dimenticare i problemi di organizzazione della scuola, che negli anni ha subito delle “riforme” che non hanno certo migliorato la qualità del servizio.

La scuola italiana prima dell’ultima pseudo riforma – la legge del 13 luglio 2015, numero 107 – assegnava al preside il ruolo di primus inter pares fra gli insegnanti. Era un professore che aveva svolto l’attività di vicepreside o di collaboratore, consolidando l’esperienza sul campo. È tutt’altro che semplice gestire una scuola. Nella mia quarantennale esperienza ho avuto tanti colleghi che ambivano a diventare presidi e acquisendo punteggi legati alla funzione svolta nella scuola sono riusciti a diventare prima presidi supplenti e dopo ordinari. La legge 107 trasforma ex lege il preside in dirigente scolastico, come se si potessero acquisire le competenze manageriali, trasformando il titolo da preside a dirigente. Oggi, si diventa dirigente scolastico con il superamento di un discutibile (e sono generoso) concorso pubblico. Insegnanti, spesso sindacalizzati, riescono a superare un concorso in cui i criteri di valutazione lasciano ampia discrezionalità alle commissioni. Infatti, ogni concorso ha generato ricorsi molti dei quali ancora pendenti. Ai nuovi dirigenti li accomuna il cambio di status. Diventano subito “caporali” e assumono un atteggiamento di distacco nei confronti degli ex colleghi. Mentre i vecchi presidi sapevano che una scuola può funzionare e raggiungere l’obiettivo di formare gli studenti, solo con la collaborazione degli insegnanti. I dirigenti di oggi impongono la loro presunta autorità emettendo circolari a rotazione continua, che nulla hanno a che fare con la funzione del docente. Sono diventati l’emblema del burocrate che persegue l’obiettivo di avere “i documenti a posto”, costringendo gli insegnanti ad adempimenti ridondanti che nulla apportano alla qualità del lavoro dei docenti. Per fortuna esistono le eccezioni.

La nuova preside della scuola dove insegno dal 1987 è realmente innamorata del suo lavoro. Ha portato una ventata di freschezza. Ha saputo creare il clima giusto nella scuola ed è riuscita a coinvolgere i docenti dell’istituto nel suo progetto di rilanciare la formazione di qualità. È, altresì, riuscita a coinvolgermi, nonostante il mio prossimo pensionamento, nel progetto di promuovere l’apertura di un Its Academy, scuola di formazione di eccellenza, che contribuirà all’ampliamento dell’offerta formativa funzionale a creare tecnici richiesti dalle imprese del territorio. Speriamo che l’eccezione diventi in futuro la regola.

Aggiornato il 15 luglio 2022 alle ore 10:02