L’ibernazione del consenso: io non voto

Che fine ha fatto Sua Maestà l’Elettore? La fine a lui predestinata da un sistema dei partiti (in grave crisi un po’ in tutto il mondo delle democrazie rappresentative), che hanno perso contatto con i loro “gruppi di continuità” territoriali (cosa gravissima, come il taglio delle forniture energetiche in un inverno particolarmente rigido!), limitandosi a riscuotere il biglietto per l’ingresso in Parlamento. Da qui in poi, la tendenza sciagurata è di tessere trame, complotti, accordi sottobanco, favori ai lobbysti che ne finanziano le costose campagne elettorali, e così via, al riparo di una spessa coltre di nebbia e fumo denso che rendono il tutto opaco, non trasparente come una cortina di ferro, per nascondere le malefatte, la mancanza di idee e di proposte e, soprattutto, la dismissione intollerabile della responsabilità storica dei politici nel progettare un futuro decente di benessere e lavoro per il proprio Paese.

I professori Mauro Magatti (in: “Le Democrazie occidentali cercano l’antidoto al Caos”, sul Corriere della Sera) e Sabino Cassese, che interviene sullo stesso quotidiano milanese per l’esame del post-voto amministrativo e referendario, con il suo “Il richiamo dei numeri ai Partiti deboli e divisi”, sono concordi nell’analisi del fallimento dell’attuale sistema dei Partiti e delle loro leadership, in particolare. Da tempo, per la verità (si vedano in proposito le ultime elezioni legislative francesi) si registra “l’elevata volatilità dell’elettorato e la (sua) preoccupante distanza dal sistema politico istituzionale” che, per ora, non si sono coagulate in un rigetto della forma democratica la quale, come il carrozzone della Unione europea, sopravvive grazie ai cambiamenti generati dalle crisi progressive che l’attraversano.

Il problema vero è che, mentre l’Autocrate russo, cinese, iraniano o turco tiene, nel bene come nel male, ben saldo il timone del Paese, nei regimi democratici mal funzionanti (tranne quello americano e francese che hanno soluzioni istituzionali parziali, dando una robusta forza d’impulso all’azione presidenziale), a mettere le mani sul timone sono fin troppi, sia all’interno come all’esterno dello Stato democratico interessato. Questo perché, poi, in definitiva, non ci possono essere invenzioni autarchiche in un regime di globalizzazione (più o meno incontrollata con catene di valore sempre troppo lunghe) che siano in grado di incidere sul volano economico globale, per tentare una qualsiasi correzione di rotta alla impari e una fortemente sperequata distribuzione dei dividendi della crescita, di cui beneficiano poche migliaia di soggetti, contro molte centinaia di milioni di esclusi. Delocalizzazioni massive, digitalizzazione e robotizzazione dei processi produttivi, crisi del welfare e impoverimento progressivo di sempre più larghe fasce di cittadini, con il crollo degli attivi, il dilagare delle occupazioni precarie e temporanee giovanili e il forte invecchiamento della popolazione, hanno fatto sì che al vecchio mondo delle sovranità nazionali se ne sia sovrapposto un altro, incontrollato e incontrollabile, i cui poteri sostanziali (finanza speculativa internazionale,  multinazionali e giganti digitali) sono contemporaneamente acefali e ubiquitari!

Nel contempo, la progressiva riduzione del ceto medio priva la sinistra progressista (quella che qui da noi, per capirci, trova ormai il bacino di riferimento elettorale nei quartieri borghesi delle “Ztl”, o zone a traffico limitato) della spinta propulsiva per procedere a delicate riforme, che rendano compatibili i cambiamenti economici e tecnologici con le istanze di giustizia sociale e la sostenibilità dei bilanci pubblici. L’astensione elettorale dilagante è il “sensore” non solo della crisi dei partiti ma della rassegnazione collettiva che chiunque vada al potere non sarà in grado di cambiare l’attuale stato delle cose, proprio a causa di questa eterodirezione acefala dei destini nazionali e delle relative identità che, ormai, annegano in un mare di bisogni insoddisfatti, ondate migratorie incontenibili, relativismo ideologico e una domanda di giustizia sociale e ordinaria totalmente inevase. Questa operazione dell’ibernazione di consenso o di vuoto elettorale contiene però tutte le soluzioni “particella-antiparticella” che, grazie a fluttuazioni quantistiche, possono creare materia dove prima non c’era nulla, potendo l’una o l’altra essere attratte da potenti forze gravitazionali al loro esterno, per rimanere così definitivamente separate. In tal modo, da questo gap della disaffezione e dell’astensione di massa possono venire cose buone come nuove energie economiche, sociali e culturali, ma anche molto negative nel caso divampino gli incendi della protesta sociale, sostanzialmente molto pericolosi per la sopravvivenza della forma democratica.

Allora, nota Magatti, in questa società fluida, per i politici di turno “riuscire a cavalcare l’onda è qualcosa di molto difficile, che riesce per una stagione o poco più. A meno di riuscire a installarsi nei gangli della vita sociale, con un rischio di un logoramento lento e irreversibile”. E, talvolta, quest’ultimo è davvero rapido, con leadership che si consumano nello spazio di una legislatura, come si è visto nella parabola dei Cinque Stelle, della Lega salviniana e di altre formazioni minori di centro destra e di centro sinistra. Questo perché a un multipolarismo dei poteri mondiali se ne somma uno ancora più distorsivo che fa leva sui localismi e sui particolarismi, sottraendo al centro di gravità politico permanente i suoi punti stabili di accumulo e riferimento. Pertanto, le aggregazioni (politiche) diventano sempre più casuali, temporanee e precarie, essendo prive di una Grand Vision comune che accetti i sacrifici in cambio della realizzazione di un Grande Progetto. Cassese è ancora più drastico, censurando comportamenti come quelli sottesi dai quesiti e dalla campagna referendaria sulla giustizia, che ha teso a delegare a uno strumento (binario: “Sì/No”) del tutto improprio, compiti che sono esclusivamente del Parlamento che, infatti, subito dopo ha varato la Riforma Cartabia in perfetta assonanza con ciò che, malgrado il quorum mancato, è comunque venuto fuori dai pochi che sono andati a votare (appena un quinto scarso degli aventi diritto al voto!).

Perché, poi, pare dire il professore, è davvero intollerabile che anche quello che si può fare come riforme (e qui lo stesso Pnrr inizia davvero a tremare!) si rinvii sempre alle calende greche, a causa dei veti incrociati e di interessi quasi sempre inespressi e non trasparenti (per l’intensa attività sotterranea svolta da lobby istituzionali, economiche e sindacali), ben presenti e diffusi nell’intero sistema istituzionale e della rappresentanza territoriale. E, sotto quest’ultimo aspetto, se ne sono visti tutti gli effetti distruttivi e disastrosi nel caso dell’emergenza sanitaria pandemica, a causa del fatto che l’enorme spesa relativa (pari al 70 per cento e passa dei bilanci degli Enti regionali!) è monopolizzata dai faraonici apparati burocratici regionali che ne fanno, in primo luogo, un centro di potere per la distribuzione di appalti e risorse pubbliche, assoggettandole a sprechi inauditi. Così come la gestione regionale degli uffici di collocamento rappresenta una vera follia antistorica, senza che a nessuna forza politica venga mai in mente di copiare il modello centralizzato tedesco, molto più efficiente e perequativo del nostro. Ecco, noi siamo sempre qui: un puntino disordinato nel caos dell’Universo.

Aggiornato il 24 giugno 2022 alle ore 14:44