Astensionismo e malafede sui referendum per la giustizia

Quando non si hanno argomenti per contrastare la grande voglia di riforme sulla giustizia convogliate in questi sacrosanti referendum radicali e leghisti per cui domenica si voterà (speriamo in tanti), ecco che le argomentazioni tendono a inclinare tanto al qualunquismo più ignorante quanto alla vera e propria malafede. Mercoledì sera, se ci fosse stato bisogno di ulteriore riprova, ne abbiamo avuto conferma nel pur meritorio dibattito organizzato su “La7” da Enrico Mentana, cui va riconosciuta la lode mediatica per essere stato il primo, l’unico – e l’ultimo – a farsi lo scrupolo di informare la gente. In particolare, colpiva il goffo tentativo di Debora Serracchiani nel contrapporsi a Roberto Calderoli nel “si” al quesito sulla custodia cautelare che vorrebbe togliere l’argomentazione della reiterazione del reato – che a vedere bene è un processo sommario alle intenzioni – da quelle che si potranno usare per giustificare una detenzione in carcere o ai domiciliari, molto prima della celebrazione del processo.

Nei film e persino nei telefilm o nelle serie tv americane della Hbo si vede, chiaramente, che quando un sospettato viene arrestato significa che l’indagine è chiusa e che il processo si farà di lì a poche settimane, se non giorni. Da noi è il contrario: il reato di solito lo scopre la polizia giudiziaria e lo segnala al pm che, invece di continuare a indagare in silenzio fin quando le prove raccolte siano ormai così evidenti da potere chiedere contestualmente l’arresto e il rinvio a giudizio, “cosa ti combina”? Chiede l’arresto immediato di tutti, anche contro il parere dei più preparati ufficiali di Polizia giudiziaria. E lo chiede al gip, che non osa contraddirlo perché ha con lui – con il pm di cui sopra – la carriera in comune. Insomma, l’accoglimento degli arresti è una formalità o quasi. Tanto che, a volte, si usano pure i prestampati. E che succede allora? Per mettere tutti d’accordo – cioè i pm, la Polizia giudiziaria, nonché il gip non terzo – gli indagati vanno in carcere sotto le fanfare assicurate dalla stampa amica, quando non alle implicite dirette dipendenze del pm, in una sorta di scambio delle notizie riservate con il clamore mediatico, metodo usato e collaudato nel giugno del 1983, quando tutti dovevano farsi belli con le manette in diretta tv apposte a Enzo Tortora.

Oggi, per giunta, a queste indagini fatte sotto i riflettori si danno “titoli” o “nickname” da film, quando non da serie televisiva. “Mafia Capitale” in tal caso “ha fatto scuola”. Anche se non è stata la prima. Che succede poi? A quel punto, dopo il botto iniziale, spesso le indagini vere e proprie rallentano, come il gioco offensivo di una squadra di calcio che sta sull’uno – o sul due – a zero e che si illude di portarla a termine così. Ma gli arrestati? Se ne stiano pure “tranquilli” in carcere, dopo che il loro calvario potenziale, se innocenti, è intanto continuato, per un paio di anni come minimo, a botte di “rivelazioni” fatte filtrare e vendute tramite quel tipo di stampa, anche e soprattutto da talk-show televisivo, che ovviamente continua a prestarsi al giochetto. Totale? L’imputato o gli imputati devono tenere botta, se regge loro la pompa, fino al processo di secondo grado, quando tutte le magagne, a volte, vengono a galla.

A questo punto, qualcuno tra i più informati obietterà: come mai in secondo grado e in Cassazione vengono ribaltate la maggior parte delle sentenze di colpevolezza che, invece, vengono emesse con spropositata e talora allarmante frequenza – a cominciare dal processo a Enzo Tortora, per l’appunto – in primo grado? Semplice: la mancata separazione delle carriere, che avrebbe dovuto seguire come conseguenza dei cambiamenti costituzionali del giusto processo nella Carta, ha portato ad attrarre anche i magistrati giudicanti in primo grado, monocratico o collegiale che sia, nell’ “orbita del gip”. Un’orbita da passacarte che, peraltro, ci pensa due volte a rifiutare un implicito quanto spesso, grazie a Dio, non richiesto “favore a un collega”. Un’orbita cui sfuggono, per ora, i consiglieri di Corte d’Appello e di Cassazione che, come dei senatori ormai arrivati a quei posti cui aspiravano andare, cominciano a prendere le distanze, spesso a tagliare ogni cordone ombelicale, dai colleghi della pubblica accusa. Da quel momento di carriera inizia a vigere tra magistrati il detto “collega sarà lei”. E la terzietà, sia pure per eterogenesi dei fini, viene in parte ripristinata.

Questo sistema sta facendo diventare l’Italia un Paese che fabbrica in serie errori giudiziari penali. Del civile e dell’amministrativo, poi, meglio tacere per ora. Parliamo in ogni caso di una vera Caporetto. I cinque referendum non sono ovviamente una condizione sufficiente a risolvere il problema. Ma altamente necessaria, sì. Eccome. Per questo stupisce quell’istinto politico freudiano a sparare l’argomento in malafede, o come si dice a Roma a “buttarla in caciara”, che caratterizza le argomentazioni del fronte del “No” ai quesiti in questione. La Serracchiani, ad esempio, si limita a citare e ri-citare ossessivamente come nei discorsi da bar le inesattezze dette da un pm di Trieste, che da giorni si sta autopromuovendo per un’inchiesta internazionale – questo aggettivo va sottolineato – che ha portato al sequestro di 4 tonnellate e mezzo di cocaina. Il mantra recitato a pappagallo dalla Serracchiani è una fosca previsione per futuri mancati arresti – se passa il referendum sulla custodia cautelare – in casi analoghi a quello di Trieste. Non è vero, ovviamente. Perché tra i reati che non possono essere toccati dalla parziale abrogazione della reiterazione del reato come causa per mandare la gente in carcere, rimarrebbero soggettivamente e oggettivamente esclusi i reati di criminalità organizzata – ad esempio – ma non solo essi. Soggettivamente perché è proprio il quesito che li esclude. Oggettivamente perché i membri di una organizzazione criminale si arrestano per pericolo di fuga e di inquinamento delle prove. Da Al Capone a oggi.

Ma quando si fa finta di essere ignoranti e approssimativi – di fronte allo stupito Roberto Calderoli che vive una propria seconda giovinezza politica da Radicale in buona fede – come si suppone o si vuole far credere sia la gente comune, ecco che alla mancanza di vere tesi politiche si può supplire solo con espedienti intellettualmente non onesti. Oltre al ripetere continuamente un’inesattezza va bene anche l’invito all’astensione, quindi. Ma così i metodi della persuasione politica diventano essi stessi parte del problema, della de-responsabilizzazione mirata e deliberata di un intero corpo elettorale, con l’obiettivo inconfessabile di tenerlo in pugno. E di controllare socialmente, in maniera più semplificata e autoritaria tutti i cittadini che ne fanno parte. Cina docet. “And Russia too”.

Aggiornato il 11 giugno 2022 alle ore 10:03