La direttiva europea sul salario minimo

L’articolo 36 della nostra Costituzione stabilisce che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. La nostra legge fondamentale fissa un principio a tutela del lavoratore. L’importo dello stipendio o del salario viene stabilito quando le parti sociali sottoscrivono i Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl).

I Ccnl stabiliscono l’importo minimo delle retribuzioni spettanti ai lavoratori subordinati. Le singole aziende possono stipulare contratti integrativi aziendali che devono sempre essere migliorativi rispetto ai contratti collettivi nazionali.

I contratti di lavoro stipulati tra le organizzazioni dei datori di lavoro: l’Aran per il settore pubblico, la Confindustria, Confapi, Confcommercio, Confagricoltura, Confartigianato e altre per il comparto privato e i sindacati maggiormente rappresentativi dei lavoratori – Cgil, Cisl, Uil, Ugl e sindacati autonomi – sono valevoli erga omnes così come previsto dall’articolo 39 della Costituzione.

Pertanto, la remunerazione del lavoro dovrebbe essere il risultato di una negoziazione tra le parti sociali che contemperi l’esigenza di una congrua remunerazione del lavoratore e la possibilità del datore di lavoro attraverso l’attività imprenditoriale di poterlo pagare. Ieri nel Consiglio europeo e nel Parlamento Ue è stato raggiunto un accordo per il salario minimo. La bozza di accordo dovrà essere approvata in via definitiva dal Parlamento e dal Consiglio dell’Unione europea.

I Paesi appartenenti alla Ue presentano situazioni economiche e sociali totalmente diverse tra di loro e quindi la bozza non poteva non prevedere una non meglio precisata condizione: “Nel pieno rispetto delle diversità nazionali”.

La retribuzione dei lavoratori subordinati in Italia, negli ultimi venti anni, si è ridotta in termini reali rispetto ai principali Paesi europei. Il problema, a mio avviso, affonda le radici nella cosiddetta concertazione voluta dal Governo Ciampi. In sostanza con la concertazione gli stipendi venivano adeguati sulla base dell’inflazione programmata dal Governo e, quindi, bypassando la negoziazione anche aspra tra le parti sociali.

La concertazione, come il salario minimo, non tiene in conto delle diverse realtà imprenditoriali e geografiche. Ad esempio il potere d’acquisto degli stipendi non è il medesimo in una città rispetto ad un piccolo paese. Il salario non è una variabile indipendente! Ci sono imprese che producono ricchezza e che sono in grado di pagare stipendi superiori ai contratti nazionali ed altre che, per problemi di produttività, hanno difficoltà a pagare i minimi contrattuali.

Le direttive calate dall’alto, che fissano principi apparentemente condivisibili, spesso cozzano con la realtà e possono danneggiare l’economia.

Fermo restando il principio costituzionale sancito dall’articolo 36, è molto meglio lasciare al mercato e alla contrattazione integrativa aziendale la giusta remunerazione del lavoro. Nessuno meglio delle imprese e degli stessi lavoratori sa qual è il livello di salario che l’impresa è in grado di pagare!

Aggiornato il 08 giugno 2022 alle ore 09:11