Di tutti i libri che nessuno può scrivere, quelli sulle nazioni e sul carattere nazionale sono i più impossibili (Jacques Barzun, 1943).
Come un dipinto impressionista, il carattere nazionale appare quando un corpo di connazionali è visto da una distanza giusta (Don Martindale, 1967).
Le persone intelligenti tra l’intellighenzia di oggi disdegnano l’idea stessa che esista qualcosa come il “carattere nazionale (Thomas Sowell, 2009).
Gli stereotipi sul carattere nazionale, una generalizzazione riguardo alle qualità costanti di un gruppo etnico, possono sembrare chiacchiere inutili da cocktail party, osservazioni di albergatori cinici o impressioni superficiali di viaggiatori. Sono, però, molto di più. In effetti, una lunga e impressionante tradizione di élite politiche, intellettuali e di sociologi si è espressa su questo argomento.
Tra questi ci sono leader politici degli Stati Uniti (Theodore Roosevelt), del Regno Unito (Stanley Baldwin, John Major, David Cameron), della Francia (Georges Clemenceau), della Germania (Otto von Bismarck, Adolf Hitler), dell’India (Narendra Modi), della Cina (Hu Jintao), dell’Indonesia (Joko Widodo), del Giappone (Tsutomu Hata). Il carattere nazionale è stato trattato anche da luminari intellettuali come Theodor W. Adorno, Walter Bagehot, Lawrence Durrell, David Hume, T.E. Lawrence, Theodor Mommsen. E anche da Montesquieu, John Ruskin e da Max Weber.
I sociologi hanno dedicato grandi sforzi a ricercare, sistematizzare e teorizzare su questo argomento annoso, in particolare, lo fecero gli americani nella Seconda guerra mondiale. Esiste una bibliografia dei “principali scritti di sociologi e storici su cultura e personalità, sul carattere nazionale e americano” tra il 1940 e il 1963. Questo documento di 17 pagine, comprese le annotazioni, elenca i nomi di numerose personalità: Daniel Bell, Morroe Berger, Daniel J. Boorstin, Henry Steele Commager, Marcus Cunliffe, Merle Curti, Erich Fromm, Francis LK Hsu, Harold J. Laski, Max Lerner, Seymour Martin Lipset, Talcott Parsons, David Riesman, Walt W. Rostow, Arthur M. Schlesinger, Jr., Edward A. Shils, Melford Spiro, Thorstein Veblen e William H. Whyte, Jr..
Sebbene la grande impresa socio-scientifica della metà del secolo sia in gran parte infruttuosa, merita di essere esaminata attentamente per assaporare le sue affermazioni colorate e peculiari e per imparare dai suoi errori. In breve, sociologi, antropologi, psichiatri e altri si sono lasciati trasportare dagli entusiasmi disciplinari e hanno commesso l’errore fondamentale di ignorare l’evoluzione nel tempo, vale a dire, il ruolo della storia.
Prima della Seconda guerra mondiale
Il fatto di attribuire un carattere nazionale, in genere negativo, ad altri popoli risale a molto tempo fa. Ippocrate collegò le qualità marziali degli europei al loro clima. Più in generale, gli antichi Greci svilupparono il concetto di nomos, ovvero le convenzioni, le regole e i costumi che le persone danno per scontati. Il sacerdote egiziano Manetone fu uno dei primi antisemiti. I musulmani medievali parlavano di “un turco codardo, un arabo avido, un persiano incivile o un nero irascibile”.
Gli europei e i loro discendenti, a causa dei loro notevoli progressi rispetto al resto del mondo a partire dal 1700 circa, spiegarono il proprio successo con un miscuglio di spiegazioni compiacenti che andavano dalla superiorità della razza caucasica alla geografia e al clima, passando per il retaggio greco-romano, la religione cristiana e il nazionalismo. Così, nel 1742, ad esempio, il filosofo David Hume si espresse aspramente e con disprezzo affermando: “Tendo a pensare che i negri siano naturalmente inferiori ai bianchi (…) i più rozzi e barbari dei bianchi (…) hanno pur sempre qualcosa in cui eccellono”. Col passare del tempo, queste idee irriverenti si sono tradotte in ambiziose teorie sul carattere nazionale contenute in opere voluminose e accademiche. Ad esempio, Richard Chenevix (1774-1830), un eminente uomo di scienza, scrisse un’opera in due volumi dal titolo Saggio sul carattere nazionale in cui dedicò 1.121 pagine a dimostrare che l’Inghilterra vanta “la migliore civiltà” del mondo, mentre la Francia è “la nazione che ha mantenuto la maggior parte della ferocia”.
Con lo sviluppo delle discipline della sociologia, dell’antropologia e della psicologia, ebbe luogo un grande dibattito riguardo alla preminenza da attribuire alle caratteristiche esterne (clima, geografia, tipo di governo) o all’ereditarietà. La prima opzione, minoritaria, fu sostenuta dallo storico William Dalton Babington, il quale affermava che “non c’è verità nella teoria ancestrale dei caratteri nazionali”. Anche Sidney Gulick, un professore americano di teologia vissuto in Giappone, sosteneva che “le caratteristiche nazionali più importanti sono in gran parte il risultato di particolari condizioni sociali, piuttosto che di un carattere nazionale intrinseco”.
Ma se la maggior parte degli studiosi ha mantenuto vecchie idee sul “sangue” e sui tratti razziali, ha impresso a tali analisi un nuovo pseudo-rigore. Nel suo influente The Group Mind , il famoso psicologo William James, professore di psicologia all’Università di Harvard, nel 1920, sostenne che la razza “è di fondamentale importanza nel determinare il carattere nazionale” e rilevò “senza alcun ragionevole dubbio che ci sono grandi differenze tra le razze, e queste possono essere, e in molti casi sono state, persistenti per migliaia di generazioni”. In particolare, James si concentrò sulle dimensioni del cervello e offrì generalizzazioni come il fatto di attribuire alla razza nera “certe peculiarità mentali specifiche (…) soprattutto l’indole allegra e spensierata, l’incontrollata violenza emotiva e la capacità di reazione”. In uno studio del 1893 intitolato Vita e carattere nazionale che il futuro presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt, definì “uno dei libri più importanti del secolo”, lo storico Charles Pearson faceva affidamento sul carattere nazionale per prevedere guerre razziali in cui “le razze inferiori predominavano” sulle “razze superiori”.
A provare tali teorie, sono scesi in campo gli antropologi. Ad esempio, dopo aver somministrato il test delle macchie d’inchiostro di Rorschach a un certo numero di “semplici contadini” nel Marocco occidentale, Manfred Bleuler e il suo coautore arrivarono alla conclusione che il marocchino non ha la “tendenza alla generalizzazione astratta” dell’europeo, che è facilmente influenzato da “un marcato entusiasmo sotto l’influenza di eventi momentanei” e che “gli manca quella ricerca sistematica, energica e perseverante del successo esterno” che caratterizza gli europei.
Nel caso particolare del Giappone, servivano a spiegare tanto l’arretratezza quanto i successi. Johannes Justus Rein, un professore tedesco di geografia, riteneva che i giapponesi fossero “una razza di bambini innocui, fiduciosi, allegri e inclini a tutte le età ai giochi infantili, facilmente interessati a qualsiasi cosa nuova fino all’entusiasmo, per poi stancarsene rapidamente quando familiarizzavano con essa solo in parte”. Tali idee occidentali convinsero anche alcuni giapponesi: un eminente professore di filosofia, Tetsujiro Inoue, rilevò dalle forme della testa che gli occidentali possedevano un cervello più sviluppato e scrisse nel 1889 che “i giapponesi sono di gran lunga inferiori agli occidentali per intelligenza, potere finanziario, fisico e tutto il resto”.
Ma anche la razza e il carattere nazionale rappresentavano le qualità giapponesi positive. Nel 1859, un capitano e scrittore britannico ravvisò nei giapponesi “una razza davvero straordinaria” e dichiarò che era “impossibile non riconoscere nel loro colore, nei tratti, nell’abbigliamento e nei loro costumi il ceppo semitico da cui dovevano discendere”. E poi concluse prevedendo il loro futuro successo. Nel 1905, Gulick affermò che i giapponesi dimostravano “l’inadeguatezza della teoria fisiologica del carattere nazionale”. La sua prova? “Se un orientale fosse stato necessariamente e immutabilmente orientale, sarebbe stato impossibile per il Giappone entrare in contatto così stretto ed empatico con l’Occidente”. Gulick passò poi a predire che “il Giappone ha un futuro brillante davanti a sé, a causa del (…) suo carattere nazionale”. Nel 1915, il sociologo Thorstein Veblen scrisse che i giapponesi se la cavavano così bene a causa di “un parallelismo [con gli occidentali] nella composizione razziale”. Ancora una volta, questo apprezzamento ebbe un impatto sui giapponesi. Nel 1909, il poliedrico Inazō Nitobe scrisse che “nella facoltà ricettiva della razza giapponese ci deve essere qualcosa che la renda simile alle razze europee. È dovuto al sangue ariano che potrebbe esserci arrivato attraverso gli indù, come (...) dimostrato da prove craniologiche?”.
I romantici e i nazionalisti tedeschi esaminarono in modo sistematico il loro Volksgeist (spirito nazionale) e quello degli altri, nella speranza di farne una scienza esatta per discernere gli attributi specifici di una nazione. Tra le figure di spicco di questa impresa figuravano luminari come Johann Gottfried von Herder (1744-1803), Alexander von Humboldt (1769-1859) e i co-fondatori della psicologia dei popoli (Völkerpsychologie) Heymann Steinthal (1823-1899) e Moritz Lazarus (1824-1903). Nel tempo, gli studiosi tedeschi hanno promosso l’idea della nazione concepita come un insieme misticamente unito a un’eredità razziale condivisa. Wilhelm Wundt, il fondatore della psicologia, scrisse un libro nel bel mezzo della Prima guerra mondiale in cui sosteneva che il carattere nazionale emerge più chiaramente in tempo di guerra piuttosto che in tempo di pace.
Ispirandosi all’ideologia nazista, i sociologi tedeschi svilupparono una vasta pseudoscienza basata sulle caratteristiche razziali. L’eminente psicologo Erich R. Jaensch utilizzò il suo prestigio, il suo potere e i risultati della sua ricerca sulla visione e sulla memoria per elaborare dei tipi biopsicologici e una presunta base scientifica per l’inferiorità razziale ebraica, ottenendo così il favore di Hitler. Il regime nazista, osserva l’antropologa Margaret Mead, fece persino “un tentativo sistematico di alterare il carattere nazionale tedesco”. I tentativi tedeschi conferirono all’idea di carattere nazionale, nelle parole del sociologo austriaco Frederick Hertz, “un significato nuovo e sinistro”.
Studi sulla Seconda guerra mondiale
Già nel 1872, il grande filosofo liberale John Stuart Mill riteneva che “le leggi di carattere nazionale (o collettivo) sono di gran lunga la categoria più importante di leggi sociologiche” e sollecitò lo sviluppo di una disciplina da lui denominata “etologia politica, o scienza di carattere nazionale”. Tuttavia, né lui né nessun altro perseguì tale idea fino alla Seconda guerra mondiale. Quella guerra indusse tre cambiamenti epocali tra i sociologi anglofoni, i quali convennero che “il problema del carattere nazionale è di fondamentale importanza”, oggi e in futuro; abbandonarono l’approccio razziale per concentrare l’attenzione sulla personalità e sull’educazione dei bambini e cercarono di applicare alla politica pubblica le considerazioni sul carattere nazionale. Essi puntavano in alto in termini di influenza. In un editoriale del 1941, la rivista britannica Nature spiegava:
“Per lo statista che deve occuparsi delle grandi questioni della politica futura, le caratteristiche durature del carattere nazionale e le tendenze del suo sviluppo sono ugualmente significative. Per le scienze sociali, ci possono essere pochi compiti più importanti del contribuire alla piena comprensione del carattere, dello spirito e degli interessi prevalenti delle nazioni tra le quali si combatte la guerra, e per mezzo delle quali deve essere ricostituito un ordine internazionale”.
Inoltre, gli studiosi alleati cercarono di comprendere le proprie popolazioni, a tendere la mano agli amici in territorio nemico, a migliorare le relazioni con gli alleati e a fornire delle linee guida per le forze di occupazione. Un autore di Science News sperava persino che gli studi sul carattere nazionale potessero evitare “quei fraintendimenti e quelle interpretazioni errate che possono condurre alla guerra”. Tenendo conto di queste offerte di aiuto, il governo americano fece appello alla consulenza di famosi accademici per comprendere l’Asse, in particolare, il Giappone. L’Office of War Information e altre agenzie del governo statunitense invitarono eminenti antropologi e psicologi a partecipare. Le domande poste, come riportato dall’antropologa Ruth Benedict, erano le seguenti: “La resa (dei giapponesi) è possibile senza invasione? Occorre bombardare il palazzo imperiale? Cosa possiamo aspettarci dai prigionieri di guerra giapponesi? Cosa dovremmo dire nella nostra propaganda alle truppe giapponesi e alla nazione giapponese che potrebbe salvare la vita degli americani e ridurre la determinazione giapponese a combattere fino all’ultimo uomo? (…) Una volta instaurata la pace, il popolo giapponese avrà bisogno di una legge marziale perpetua per mantenere l’ordine? Il nostro esercito dovrebbe prepararsi a combattere dei nemici pronti a tutto sulle montagne del Giappone? Deve esserci una rivoluzione in Giappone come la Rivoluzione francese o la Rivoluzione russa affinché la pace internazionale sia possibile? Chi la guiderebbe? L’alternativa è l’eliminazione dei giapponesi?”.
Occorre notare, in particolare, l’impresa denominata “lavoro sul campo a distanza” nei Paesi in cui non si poteva accedere. Gli antropologi, la cui ricerca abituale si concentrava sulle società su piccola scala, posero l’accento sulle caratteristiche della vita sociale, in particolare, i legami di parentela, le relazioni familiari e le credenze collettive. Gli psicologi attribuirono grande importanza ai concetti freudiani di personalità, alle pratiche educative e alla sessualità. Pur riconoscendo pienamente che la società birmana, tedesca, giapponese, rumena e thailandese differivano profondamente dalle piccole società del Pacifico meridionale o africane che avevano studiato (il che rendeva questi antropologi cauti nel fare generalizzazioni) alcuni orientamenti professionali si perpetuarono.
Spiccano gli studi di Geoffrey Gorer, Weston La Barre e Ruth Benedict, tutti relativi al Giappone. Nella sua analisi innovativa del marzo 1942, Gorer esaminò tre aspetti dell’educazione in Giappone e trasse conclusioni di vasta portata sulla politica e sull’esercito del Paese. Innanzitutto, Gorer riteneva che “la drastica educazione all’igiene” fosse la base del sistema di valori. Questo spiega perché i giapponesi non hanno un senso degli assoluti morali e si preoccupano più di fare la cosa giusta al momento giusto che di cosa sia giusto e sbagliato. E spiega anche “il netto contrasto tra l’onnipresente dolcezza della vita quotidiana in Giappone (...) e la travolgente brutalità e il sadismo dei giapponesi in guerra”. Ciò porta a un’ossessione per il rituale, incoraggiando la compulsione e persino la nevrosi; questo, a sua volta, spiega la natura squilibrata della società giapponese. E poiché l’ossessione porta all’aggressività, i giapponesi hanno bisogno occasionalmente di sfogare i loro pericolosi impulsi attraverso avventure all’estero.
In secondo luogo, Gorer sosteneva che i figli maschi sono sottomessi ai padri, ma dominano le madri. Questa reminiscenza fa sì che i governanti giapponesi vedano gli altri Stati come maschili o femminili: rispettano i primi, disprezzano i secondi. Di fatto, Gorer paragonò il sacco giapponese di Manila a un “ragazzo arrabbiato” che vuole “distruggere la pettinatura di sua madre e rompere le sue preziose spille”.
In terzo luogo, Gorer attribuì grande importanza all’abitudine giapponese di prendere in giro i bambini per convincerli a comportarsi bene. Questo induce i giapponesi a sentirsi in pericolo “a meno che l’ambiente nel suo insieme non sia compreso e se possibile controllato”. Da questo, il passo è breve per il dominio del mondo. “I giapponesi non possono mai sentirsi al sicuro a meno che, come hanno proposto alcuni dei loro oratori militari più ampollosi, il Mikado non governi l’intera Terra”. I sorprendenti salti di Gorer da bambino ad adulto e dalla sfera domestica a quella politica hanno ispirato numerosi scritti.
La Barre ha rilevato che “il rigore o la crudeltà” impiegata nell’educazione all’igiene dei bambini fa sì che i giapponesi siano “probabilmente le persone più compulsive del museo etnologico mondiale”.In effetti, l’intera personalità giapponese “è plasmata dalla lotta e dalle reazioni” all’impegnativo esercizio che accompagna un “condizionamento culturalmente colorato degli sfinteri”. In particolare, l’enfasi sull’obiettivo di salvare la “faccia” induce i giapponesi a impegnarsi nell’aggressione in modo subdolo, e questo potrebbe spiegare il comportamento giapponese a Pearl Harbor. Le relazioni di genere hanno anche un’incidenza diretta sulla politica internazionale, poiché il “dominio brutale, facile e costante del maschio sulla femmina in Giappone, come in Germania, ha un’influenza diretta sui loro atteggiamenti nei confronti dei più deboli, e quindi ‘inferiori’”. La Barre ha persino affermato che “gli americani devono modificare il sistema sociale giapponese con grande rigore, determinazione e accuratezza”.
Nel suo più impressionante e tenace studio sul campo a distanza. Il crisantemo e la spada, la Benedict ha attenuato l’enfasi posta da Gorer e da La Barre sulle pratiche educative dei bambini e sulla teoria dell’erotismo anale di Freud. Ha scoperto un carattere giapponese plasmato da una rigorosa educazione all’igiene e da una cultura della vergogna che ha creato una nazione di individui ossessivamente puliti, educati e ossequiosi. Tuttavia, anche lei ravvisava una chiara connessione tra famiglia e Stato. Così, un atteggiamento di rispetto per il padre “diventa un modello in tutta la società giapponese”.
Seconda guerra mondiale-Raccomandazioni politiche
Queste analisi hanno toccato un tasto sensibile e, pertanto, sono state ampiamente e (crudelmente) diffuse. Un rapporto redatto nel 1944 per il generale Douglas MacArthur sosteneva che la modesta struttura fisica dei giapponesi spiegava la loro aggressività: “In ogni senso della parola, i giapponesi sono persone piccole. Alcuni osservatori affermano che non ci sarebbe stata Pearl Harbor se i giapponesi fossero stati tre pollici più alti”. Lo stesso MacArthur descriveva la mentalità nazionale giapponese come quella di un “bambino di dodici anni”, dichiarando che il suo obiettivo in Giappone era quello di “rimodellare il carattere nazionale e individuale”.
Con un’unica eccezione, le raccomandazioni politiche emerse da questa analisi si sono rivelate insoddisfacenti. In particolare, gli studiosi del carattere nazionale prevedevano che i giapponesi e i tedeschi avrebbero dovuto subire profondi cambiamenti prima di poter assimilare i modi democratici dopo la Seconda guerra mondiale. Nel 1946, l’antropologo Douglas G. Haring scrisse del Giappone che la democrazia “non può essere creata per decisione tra un popolo i cui sentimenti più profondi sono contrari alla tradizione democratica. È solo modificando i modelli dell’esperienza sociale nell’infanzia che una società può subire una riforma permanente, sia verso la democrazia o verso l’autocrazia. Ma mentre Haring scriveva quelle righe, MacArthur stava imponendo con successo la democrazia al Giappone su incarico, e senza interferire nelle pratiche di educazione dei bambini del Paese.
In un editoriale del 1941, la rivista britannica Nature trasse conclusioni pessimistiche sulla Germania. Sulla base del fatto che non c’erano molte generazioni di bambini [tedeschi] cresciuti in periodi in cui gli ideali di cooperazione democratica erano presenti tra la popolazione adulta”, era improbabile che la Germania del dopo-guerra prendesse le distanze dagli orrori che aveva commesso durante conflitto. Nel 1942, Morris Ginsberg concordò scrivendo che “il bisogno di autorità è profondamente radicato nella società tedesca e il rapporto di inferiore e superiore permea tutte le sfere di attività. Sarà quindi necessario un periodo prolungato di educazione ad altre forme di organizzazione prima che i tedeschi siano indotti ad abbandonare le forme di ordine basate sull’autorità e sulla subordinazione gerarchica”.
La diagnosi fatta da Richard Brickner nel 1943 del carattere nazionale tedesco lo indusse a prescrivere misure drastiche alla Germania del dopoguerra, come consentire alle coppie di sposarsi, a condizione che accettassero che il governo allevasse i loro figli. Dopo la fine della guerra e l’inizio del governo militare americano, Bertram Schaffner, che aveva partecipato al processo di Norimberga e lavorato alla denazificazione, temeva che anche i tedeschi antinazisti “non avessero consapevolezza dei fattori della vita personale e familiare tedesca che creano autoritarismo, intolleranza, sfiducia, aggressività e rigidità nel comportamento nazionale”. Schaffner propugnò una lunga occupazione e invocò non soltanto una riforma ideologica e istituzionale, ma propose altresì di rivedere le “relazioni interpersonali e la vita familiare”.
Ma di fatto i tedeschi non avevano bisogno di “un periodo di istruzione prolungato” né di un’educazione dei bambini da parte del governo prima di diventare democratici. Le elezioni per il Bundestag si svolsero con successo solo quattro anni dopo il crollo del regime nazista.
I sociologi formularono una raccomandazione politica basata sul carattere nazionale che si rivelò positiva. Come spiega John Dower, essi invitarono gli Alleati ad “astenersi dall’attaccare l’imperatore e l’istituzione imperiale, simboli per eccellenza” della cultura giapponese. Anche qui, tuttavia, Dower ritiene che l’argomento degli studiosi abbia “avuto un impatto trascurabile sulla formulazione della politica di guerra alleata” e ne minimizza piuttosto l’importanza. In breve, i gli ostinati funzionari governativi presero delle buone decisioni, e non furono influenzati dalle analisi errate dei sociologi.
La critica del Secondo dopoguerra
Inizialmente, anche i critici delle analisi di Gorer, La Barre e della Benedict tendevano ad accettare il loro approccio generale. L’antropologo John F. Embree disquisì sui dettagli e mentre lo psicologo Fred N. Kerlinger li criticò senza mezzi termini (“insostenibili”, “gravi errori e pregiudizi”), rilevò che “c’è molto di buono nel loro lavoro”. Tuttavia, subito dopo la fine della guerra, gli studi riduttivi della Seconda guerra mondiale, o ciò che Clyde Kluckhohn definì “l’interpretazione della storia da parte della carta igienica Scott” vennero screditati, ripudiati e talvolta derisi.
Nel 1945, Embree rilevò che i giapponesi utilizzarono più o meno le stesse tecniche di educazione all’igiene durante due secoli di pace. Hamilton Fyfe, un simpatizzante antisemita e comunista, scrisse un intero libro nel 1946 per dimostrare che “il carattere nazionale è un’illusione e sta provocando enormi danni al mondo”. Nel 1947, Haring scrisse che “il carattere nazionale ha fornito un terreno di caccia ideale per sentimentalisti, demagoghi e collezionisti di curiosità, frenando la ricerca scientifica”. Nel 1949, una rivista giapponese pubblicò cinque articoli sui “Problemi sollevati da Il crisantemo e la spada”. L’anno 1951 vide un boom di critiche: Bertram Wolfe, uno specialista della Russia, prese in giro le tesi sull’educazione dei bambini: “In meno tempo di quello che serve per sfasciare un bambino o cambiargli i pannolini, si può dire a MacArthur come amministrare il Giappone, a Truman come trattare con la Russia e (all’amministratore della Germania occupata dagli alleati John) McCloy come affrontare tutti i problemi del pensiero e delle istituzioni tedesche”. Lo psicologo Maurice Farber liquidò gli studi realizzati in tempo di guerra come “prodotti di una metodologia impressionista essenzialmente casuale”. L’antropologo Ralph Linton rilevò che “gli studi recenti non hanno né più né meno pretese di accuratezza scientifica rispetto agli scritti di Tocqueville o Charles Dickens” e Haring notò che “rasentavano il fantastico”. Il sociologo Morroe Berger ammonì che “antropologi, sociologi e psicologi (...) devono imparare a evitare facili analogie tra comportamento individuale e comportamento nazionale”.
Due anni dopo, l’antropologo David Mandelbaum affermò che gli studi sul carattere nazionale “sono ancora agli inizi e forse annaspano ancora”. Nel 1954, lo storico David Potter osservò che “il concetto (di carattere nazionale) ha subito un duro colpo, o addirittura è del tutto screditato”. La terribile ombra degli studi nazisti screditò ulteriormente l’idea del carattere nazionale, inducendo il giornalista Milton Mayer ad affermare in un libro influente pubblicato nel 1955 che “esiste una cosa chiamata carattere nazionale, anche se i nazisti hanno affermato la sua esistenza”. Le cose poi peggiorarono negli anni Sessanta, quando la quasi assenza di donne, di neri e di altre minoranze dal dibattito sul carattere nazionale offese molti. Così, nel 1967, E. Adamson Hoebel rilevò che il carattere nazionale aveva “perso il suo sapore” per gli antropologi, la maggior parte dei quali lo considera “un ambito sclerotizzato e poco promettente”.
Altri consideravano tale concetto del tutto inutile. Nel 1979, lo specialista giapponese Ezra F. Vogel ritenne necessario rifiutare l’approccio del carattere nazionale per comprendere il Giappone: “Il successo giapponese ha meno a che fare con i tratti caratteriali tradizionali che con specifiche strutture organizzative, programmi politici e pianificazioni consapevoli”. Nel 1980, l’antropologo Peter T. Suzuki criticò la mediocrità metodologica e le conclusioni superficiali dello studio di La Barre del 1945 sul carattere nazionale giapponese, condotto in un campo di internamento nell’Utah. Nello stesso anno, lo storico Richard Minear generalizzò l’affermazione dicendo che “le dichiarazioni sul carattere nazionale sono intrinsecamente pericolose”. In un libro sul carattere nazionale, lo psicologo Dean Peabody scrisse che “raramente nella storia intellettuale ci sono così tante argomentazioni mediocri basate su prove così esigue”. Nel 1988, lo psicologo sociale Hiroshi Minami criticò la Benedict per aver scritto un libro che era “troppo statico e astorico per catturare le reali dinamiche della psicologia sociale giapponese”.
In un libro del 2001 sul carattere nazionale, l’analista junghiano Michael Gellert ha riconosciuto che “il concetto di carattere nazionale è uno dei più vaghi e misteriosi nella storia delle idee”. Nel 2006, Robert R. McCrae e Antonio Terracciano hanno esaminato i profili della personalità di 51 Paesi e hanno concluso che “le percezioni del carattere nazionale sono stereotipi infondati”. Nel Dizionario di psicologia pubblicato nel 2013, la voce “carattere nazionale” definiva quest’ultimo come “costituito principalmente da stereotipi raramente accurati”. Nel 2016, Charles Hill della Hoover Institution ha disprezzato lo studio del carattere nazionale, osservando che “una volta era riconosciuto come fondamentale” ma ora, come argomento, “si nasconde da qualche parte tra una sgradevole insensibilità e un’arroganza inammissibile”.
Studi del Secondo dopoguerra
Nonostante questa raffica di critiche, “lo studio del carattere nazionale è stato un aspetto centrale della storia intellettuale del secondo dopoguerra. È stato un progetto che ha coinvolto tutti i rami delle scienze sociali: storia, psicologia, sociologia, antropologia, economia e scienze politiche”. Nel 1951, Berger esprimeva ancora la speranza di vedere “lo sviluppo di una formidabile scienza di carattere nazionale. Tra il 1945 e il 1955, gli antropologi pubblicarono libri sul carattere nazionale degli americani, dei brasiliani, dei cinesi, degli inglesi, dei tedeschi e dei russi.
Questi lavori rispondevano a diverse esigenze: distinguere il carattere nazionale dagli stereotipi nazionali, elaborare politiche di occupazione in Germania e in Giappone e sviluppare politiche e strategie militari. Gli psicoanalisti continuarono a mettere sul lettino interi Paesi. Così, nel 1950, Henry V. Dicks rilevò che il tipico tedesco aveva “una struttura caratteriale ambivalente e compulsiva, ponendo l’accento sulla conformità al dominio e all’obbedienza, che è una forte contro-catessi delle virtù del dovere, del ‘controllo’ da parte del Sé, particolarmente rafforzata da una ri-proiezione dei simboli del Super Ego”. Nel 1967, l’American Academy of Political and Social Science dedicò un numero dei suoi Annals al “Carattere nazionale nella prospettiva delle scienze sociali”, a cura dell’illustre sociologo Don Martindale.
Nel 1985, Peabody esaminò le opinioni sul carattere nazionale in sei Paesi, sia ingroup (un gruppo sociale a cui l’individuo si sente appartenente e con cui identifica, Ndt) sia outgroup (il gruppo con cui gli individui non si identificano, Ndt), trovando un consenso impressionante a tutti i livelli sulle caratteristiche di ciascun Paese. Nel 1990, il New York Times pubblicò un articolo, “Why I Fear the Germans” (“Perché ho paura dei tedeschi”), che rilevava una maggiore aggressività dei genitori nei confronti dei bambini, nonché più atti di aggressione tra i bambini, in Germania piuttosto che in Danimarca o in Italia. Nel 1997, il sociologo Alex Inkeles, dopo aver raccolto i suoi articoli ed esaminato il campo, con particolare attenzione alla Germania, alla Russia e agli Stati Uniti, concluse che c’è ancora molto lavoro da fare. Nel XXI secolo, sono stati pubblicati libri sul carattere nazionale americano, cinese, inglese, indiano e dell’Europa orientale, nonché sullo sviluppo comparativo del carattere nazionale e sui livelli di ansia, sebbene tali opere tendano ad essere più retrospettive che descrittive.
Il dibattito resta vivo e l’interesse forte. Jstor, la biblioteca digitale di quasi 2.000 riviste accademiche e altri materiali, elenca più di 42mila articoli che includono il termine “carattere nazionale”. La voce “Carattere nazionale” nell’International Encyclopedia of the Social Sciences ha avuto più di 2,5 milioni di visualizzazioni. Google Ngram, che documenta la percentuale di libri in cui compare una parola o una frase, mostra un livello basso dal 1800 al 1925, poi un picco dieci volte superiore nel 1955-1965, seguito successivamente da un calo alquanto modesto.
Il dibattito sul carattere nazionale oggi conserva molte delle specificità della ricerca precedente: mentre le teorie fantasiose sono in gran parte svanite, le menti più imponenti da tempo si sono ritirate e le indagini sono prettamente accademiche, il concetto riecheggia l’ampia portata di queste tradizioni. Esaminando il lavoro della “National Character School”, l’antropologo Sujay Rao Mandavilli conclude che ha lasciato un “segno indelebile” nell’antropologia sociale e culturale.
Conclusione: la necessità della storia
Cosa pensare del grande esperimento della metà del Novecento volto a trasformare il carattere nazionale in un argomento di analisi oggettiva? Brillanti studiosi hanno proposto idee originali e accattivanti, espresse in modo chiaro. Purtroppo, c’è una dimensione cruciale che i sociologi hanno ampiamente ignorato: quella storica. Quest’assenza andò ben a minare l’utilità del loro operato.
In altre parole, il carattere nazionale immutabile non può spiegare il cambiamento nel tempo. Anche se si accettano le teorie sull’educazione dei bambini in Giappone e in Russia, queste non possono spiegare l’aggressività dei regimi di questi Paesi in un dato momento della storia. Nelle parole di Farber: “Nessuna chiave della storia (...) può essere fornita da un metodo che è, nella sua essenza, antistorico”. Scienziati sociali troppo sicuri di sé hanno ignorato questa regola e hanno cercato di spiegare gli sviluppi storici senza fare riferimento alla storia. Nella loro forma più assurda, la conoscenza delle pratiche dell’educazione all’igiene evitava di comprendere la storia giapponese e la fasciatura dei bambini significava ignorare l’evoluzione della Russia. Le strutture sociali sono state create per sostituire tutte le altre forze causali, inclusa la personalità individuale, le lotte interne burocratiche, l’ideologia politica, lo slancio religioso e gli interessi economici.
“Con un colpo di bacchetta,” scrive Minear, “l’antropologo fa sparire la realtà storica e l’analisi psico-culturale rimane”. Minear continua, concentrandosi sullo sforzo di comprendere le azioni giapponesi: “Durante la guerra, i ricercatori erano antropologi, non storici, eppure posero con sicurezza domande che la maggior parte degli storici eviterebbe. (...) in tempo di guerra, gli studiosi del carattere nazionale giapponese erano storici pessimi. Erano insensibili all’ambiente storico in cui lavoravano e da cui cercavano di astrarre il carattere nazionale giapponese. Inoltre, la maggior parte di loro arrivò a vedere le proprie analisi del carattere nazionale giapponese come una spiegazione della storia giapponese, una risposta a domande come il motivo per cui il Giappone ha invaso la Cina e perché il Giappone ha attaccato gli Stati Uniti. (...) hanno visto un legame diretto tra il carattere nazionale giapponese e la politica estera giapponese, un legame che li ha sollevati da qualsiasi necessità di esaminare l’attuale ambientazione storica degli anni Trenta”.
Minear prosegue, riferendosi specificamente al Crisantemo e la spada di Ruth Benedict: “E se le cause della guerra fossero imperiali o economiche piuttosto che culturali? Queste non sono possibilità che la Benedict prende seriamente in considerazione. In definitiva, la sua descrizione del carattere giapponese, dal contenuto fortemente storico, diventa una spiegazione della storia attraverso il carattere. (...) L’analisi della Benedict ha così isolato il comportamento giapponese dal suo contesto storico”. Il concetto di “sociologo” implica la possibilità di studiare gli esseri umani come si studierebbero le amebe o gli asteroidi. La breve ma intensa incursione degli studiosi nel torbido mondo del carattere nazionale mostra i gravi limiti dei metodi scientifici e “astorici” quando sono applicati agli esseri umani. Come sempre, l’approccio storico si rivela necessario. Secondo Jacques Barzun: “La forma necessaria per dare una spiegazione riguardo a un popolo è la forma storica. Non descrivete! Raccontateci cosa è successo, chi c’era e chi ha detto cosa”.
Alcuni sociologi hanno riconosciuto i loro errori. Già nel 1944, lo psicologo Otto Klineberg riconosceva con rammarico che lo studio della storia “è un prerequisito assoluto per avere un quadro completo. Senza di esso, faremmo un errore dopo l’altro”. Nel 1953, l’antropologo Haring ammise che il carattere nazionale giapponese doveva essere considerato alla luce degli sviluppi storici, confutando così implicitamente i suoi scritti precedenti (in particolare l’articolo pubblicato nel 1946, “Aspects of Personal Character in Japan”).
Se i sociologi dovessero mai tornare seriamente su questo argomento, e potrebbero farlo, poiché, come osserva il sociologo Don Martindale, “hanno a loro disposizione un ricco patrimonio di nozioni e osservazioni sul carattere nazionale”, dovrebbero imparare dal fallimento dei grandi studi del carattere nazionale e, in futuro, porre la storia al centro delle loro ricerche.
Così facendo, si troveranno in buona compagnia. Lo storico David Potter riferisce che “tra i più eminenti autori americani di storia non ce n’è uno che non invochi, occasionalmente o costantemente, esplicitamente o implicitamente, l’idea di un carattere nazionale americano”. Potter osserva che per gli storici nazionalisti in generale, “il concetto di carattere nazionale è diventato (...) l’unico presupposto storico dominante ad aver permeato il trattamento di tutto il loro materiale”, sebbene ammetta che facciano poco per chiarire il concetto. In effetti, Potter è uno dei rari storici a integrare nel suo lavoro la ricerca sul carattere nazionale, uno studio sul carattere americano. In una rivista storica specializzata, trova la chiave non nelle solite categorie dell’individualismo o del conformismo, ma in un singolare impegno per l’uguaglianza. Pertanto, esistono gli elementi di base per una seria ricerca sul carattere nazionale.
(*) Traduzione di Angelita La Spada
Aggiornato il 16 maggio 2022 alle ore 09:28