Lezioni francesi

Primo turno delle presidenziali in Francia. Enrico Letta, che ha pubblicamente sostenuto la candidatura della socialista Anne Hidalgo uscita a pezzi dalle urne della scorsa domenica (1,75 per cento), ha giustificato la brusca virata in direzione di Emmanuel Macron sostenendo, riguardo a Marine Le Pen, che “con i populisti all’Eliseo l’Europa è a rischio”. Un minimo d’onestà intellettuale avrebbe richiesto al leader “piddino” l’introduzione nella frase di un pronome dimostrativo, indispensabile per comprendere il senso autentico del progetto “lepeniano”. Letta avrebbe dovuto dire: “Con i populisti all’Eliseo questa Europa è a rischio”.

La leader francese è interprete di una diffusa avversione alla struttura eurocratica. Avversione che non è solo la matrice di uno scivoloso populismo ma appartiene a molte delle declinazioni della destra in Europa. Se Letta avesse voluto pungere gli avversari con raffinatezza, avrebbe dovuto toccare un tasto diverso. Avrebbe dovuto chiedere al centrodestra italiano di pronunciarsi sul paradosso che la campagna elettorale di Marine Le Pen ha portato alla luce: pensare di governare da destra la Francia parlando a una base elettorale proveniente dalla sinistra tradizionale. Già, perché è questa la contraddizione che, di là dai fumi tossici della propaganda sul “pericolo fascista che avanza”, interroga la destra europea: se e come coniugare una deriva liberista, ancorata alla globalizzazione del mercato, con la presa in carico di un disagio sociale indotto dalle conseguenze negative della prassi liberista.

Esiste in Europa un popolo che cerca risposte e riscatto sociale ed economico. Un popolo, in parte alimentato dal vissuto proletario di una viva coscienza dell’ingiustizia del mondo e di una sorda rivolta contro di esso (Alain Bihr), e in altra parte rafforzato dal risentimento di pezzi significativi di borghesia degradata e impoverita dall’avvento travolgente della globalizzazione. Giunti a questo tornante della Storia, la narrazione dell’unità del centrodestra – in Francia mai realizzata, mentre in Italia è stata resa possibile dal funambolismo politico di Silvio Berlusconi – è vulnerata e i suoi protagonisti non possono più eludere la domanda: quale blocco sociale rappresentare? Nei due decenni a cavallo tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo secolo, la fase ascendente della globalizzazione ha consentito di tenere insieme tutto e il suo contrario, inducendo l’errata convinzione che un fenomeno planetario vincente potesse metabolizzare e “naturalmente” assorbire le distorsioni e i guasti creati, nella sua inarrestabile avanzata, alle comunità e alle economie territoriali. Ma quando quel fenomeno ha mostrato le prime crepe, ci si è accorti che non esistono soluzioni miracolistiche per il bene dell’umanità, ma solamente medaglie che hanno una faccia presentabile e un rovescio indesiderato. Nel volgere di quindici anni, il mondo ha conosciuto una crisi finanziaria alla quale è seguita una depressione economica; una crisi migratoria senza precedenti cha ha mosso masse d’individui del Terzo e del Quarto mondo verso le democrazie sviluppate dell’Europa e del Nord America; una pandemia, che ha messo a nudo la debolezza dei welfare state, anche quelli più evoluti; oggi si fanno in conti con una guerra prossima a trasformarsi in uno scontro di civiltà; domani, come molti esperti pronosticano, dovremo misurarci con gli effetti di una carestia di ampia portata che non colpirà soltanto le aree povere del pianeta ma lambirà le società ricche dell’Europa.

Stiamo assistendo al fallimento della globalizzazione che trascina con sé quello dell’idea liberista di affidare totalmente la vita degli Stati e delle comunità umane al mercato globale. Con la guerra russo-ucraina irrompe non già il bisogno di ritornare a un anacronistico autarchismo ma la necessità di ricondurre in capo all’organizzazione dello Stato il potere di riordinare le traiettorie delle politiche industriali e, più generalmente produttive, dimodoché in nessun altro futuro frangente una comunità umana organizzata in struttura statuale possa trovarsi scoperta nella produzione di beni necessari alla sua sopravvivenza e del suo sistema economico. Se su questo aspetto è maturata una consapevolezza diffusa, dov’è trasmigrata la differenza “ontologica” tra la visione europeista e quella cosiddetta “sovranista”? La sfida in Europa si focalizza sul perimetro della sovranità che gli Stati nazionali dovrebbero presidiare, quanto cedere a organismi sovrastrutturali e quali interessi proteggere in via prevalente. Per la sinistra europea l’attuale assetto dell’Unione, che tende a superare la centralità degli Stati nazionali, è il migliore dei mondi possibili. Non che il sistema non richieda aggiustamenti. Correzioni possono essere apportate senza toccare l’impianto complessivo dell’architettura sovranazionale e, soprattutto, senza mettere in discussione il processo d’integrazione che va realizzato sulla base dei valori oggi consolidati nell’azione politica delle governance eurocratiche.

Al contrario, per la destra non basta il cacciavite per riparare l’odierna Unione europea ma occorre una profonda modifica dell’organizzazione comunitaria, che ne rimetta in discussione non solo le regole e le tecnicalità ma anche i valori-guida, la missione e gli obiettivi da colpire. Il programma elettorale di Marine Le Pen risponde alla domanda del cambiamento che è nelle corde di una destra depurata di fuorvianti qualificazioni del tipo: radicale, estremo, sovranista. Se tanti commentatori si fossero scomodati a leggerlo, si sarebbero accorti che le cose sulle quali punta la Le Pen sono le medesime contenute nei programmi elettorali del centrodestra italiano. Sull’Europa, ad esempio, la leader del Rassemblement National chiede di rinegoziare i Trattati sul funzionamento dell’Ue e di sovvertire il principio di primazia del diritto comunitario sull’ordinamento giuridico nazionale. I tanto criticati rapporti con la Russia di Vladimir Putin? Per Marine Le Pen la soluzione si traduce in una chiara indicazione: far rivivere lo spirito di Pratica di Mare. Sulle riforme costituzionali, la Le Pen promette l’adozione del sistema proporzionale in tutte le elezioni (con premio di maggioranza alla Camera), l’abolizione delle Regioni e la riduzione del numero dei deputati e senatori. Cose già fatte in Italia, come il taglio dei parlamentari e l’abolizione delle Province in luogo dell’abolizione delle Regioni, o che si vogliono fare – vedi la riforma elettorale in senso proporzionale – con il voto del centrodestra.

Capitolo tasse. Per la difesa del potere d’acquisto dei consumatori, la Le Pen propone di tagliare l’Iva dal 20 per cento al 5,5 per cento; la riduzione del 10 per cento delle imposte per le prime tre fasce di reddito. Riforma del sistema delle donazioni dei genitori ai propri figli con esenzione d’imposta nel limite di 100.000 euro per figlio e di 50.000 euro per i nipoti; ingresso dei giovani nel mondo del lavoro con l’esenzione totale dalle imposte per i primi cinque anni. Non sembra anche a voi di aver sentito in Italia qualcosa di simile provenire in passato dalle schiere del centrodestra? Sul fronte pensioni, Marine Le Pen promette di non deindicizzarle e di aumentare le minime a mille euro. In Italia, c’è stato qualcuno che ha fatto la sua fortuna elettorale portando il minimo pensionistico a 1 milione di lire mensili. Sulla politica securitaria e di contrasto all’immigrazione illegale, Marine Le Pen non dice niente di diverso da ciò che il centrodestra italiano sostiene da anni. Cosa osta perché tutto il centrodestra nostrano si schieri con la candidata francese? Miopia, nient’altro che una desolante inattitudine della sua classe dirigente a guardare oltre il proprio naso. Pensare di preferire un Emmanuel Macron a una Marine Le Pen, come dichiara Renato Brunetta a Il Giornale, è legittimo se si pensa, come lui pensa, che il laico, sciovinista, elitario-progressista, sinistrorso presidente francese uscente sia la migliore sintesi delle tre culture politiche che hanno fatto l’Europa unita: cristiana, liberale e socialista e che rappresenti il miglior garante degli interessi dell’Italia.

Ciò che non quadra è che tra qualche mese, se non dovesse cambiare la legge elettorale con la soppressione dei collegi uninominali, potremmo trovarci costretti a votare, nelle fila del centrodestra, persone che credono che il meglio stia dall’altra parte, a sinistra. Se la premessa è nient’altro che il remake di un film già visto, con i voti pescati a destra e, chiuse le urne, portati in dote alla sinistra per uno strapuntino nella stanza dei bottoni, se la lezione francese alla destra non ha insegnato nulla, davvero non sappiamo dove si possa trovare la forza, anche turandosi “montanellianamente” il naso, per rivotarlo questo centrodestra.

Aggiornato il 15 aprile 2022 alle ore 09:28