Guerra, Benedetto Croce e il tradimento dei chierici

Le polemiche in corso tra gli intellettuali italiani sulla guerra russo-ucraina ripropongono, mutatis mutandis, un dibattito e alcuni interrogativi che animarono il periodo successivo alla I guerra mondiale. Ritorna in auge la vecchia tentazione degli intellettuali di rappresentare una guerra tra Stati come una lotta universale tra il Bene (“i nostri)” ed il Male assoluto (“il nemico”) e non solo come lotta soprattutto tra interessi particolari di Stati. Dal che deriverebbe la risoluzione di schierarsi non tanto e non solo come cittadini, il che è ovvio (“right or wrong my country”), ma anche come intellettuali. Bisognerebbe – secondo alcuni indossare l’uniforme e l’elmetto anche quando si pensa e si scrive. Ne deriva anche che viene criminalizzato, come fumo del diavolo e del nemico, l’esercizio della ragione e del dubbio e la stessa ricerca della verità. Al vero così subentra l’utile, al pensiero subentra l’azione e la prassi.

L’intellettuale così scompare e resta il soldato con la penna. Si moltiplicano le illusioni di poter contribuire con i propri scritti alla vittoria dei nostri presentata come la vittoria del Bene assoluto contro il Male assoluto. Non cambia i termini della questione rappresentare la guerra in corso non come lotta di interessi particolari di uno Stato o di una coalizione di Stati, ma solo come scontro di civiltà, tra democrazia e dittatura, tra società aperta e società chiusa. L’Occidente consiste proprio nella sua capacità di autocritica (di quella riformista, non anche di quella rivoluzionaria e auto-distruttiva). Esso consiste e si invera nella libertà di pensiero e nella ricerca della verità e delle ragioni altrui. Ciò impedisce di negare al nemico le caratteristiche della comune umanità anche quando lo si combatte. Lo prescrive sia la matrice liberale, sia quella cristiana dell’Occidente. Si rischia così di tradire l’anima etica dell’Occidente in nome degli interessi degli Stati occidentali e di rinnovare così il classico “tradimento dei chierici”.

Nel 1927 il filosofo francese Julien Benda pubblicò un pamphlet in cui denunciava appunto “La trahison des clercs” e cioè degli intellettuali europei che erano venuti meno al loro compito di “custodi dei valori universali” di verità, ragione e giustizia ed avevano rivolto “le loro speculazioni all’esaltazione della propria patria e alla denigrazione delle altre”. Quella di Benda era una protesta in particolare contro il tribalismo nazionalista di alcuni intellettuali che avevano diffuso una visione moralista e manichea della guerra e che poi  avevano negli anni successivi preso l’abitudine di militarizzare la filosofia, l’arte e la scienza in preda a passioni di vario tipo, ed in nome di ideali patriottici, classisti o superomisti. Il libro di Benda ferì molte coscienze e suscitò dibattiti e reazioni risentite tra gli intellettuali che avevano partecipato alla propaganda di guerra e che in quell’epoca stavano sempre più numerosi “prendendo partito”, secondo linee di classe o di razza.

Nel 1928 Benedetto Croce ripubblicò il suo precedente scritto “Pagine sulla guerra” precisando che lo faceva pensando a quegli uomini di pensiero che negli anni della guerra avevano nascosto o falsificato la verità con il pretesto “di servir la patria o il partito”, ma in realtà con l’intento di servire soprattutto se stessi. Croce – con riferimento al libro di Benda rimproverava a quegli intellettuali di essere venuti meno alla “difesa del comune patrimonio civile e della comune opera di pensiero e dell’arte tra i contrasti e le lotte politiche e guerresche dei popoli”.

Per Croce lo Stato come mero concetto empirico è pura forza e ha “viscere di bronzo”. Nessuno Stato può mai essere rappresentato come espressione dell’Universale, del Vero e del Bene. Significherebbe ricadere nella distopia dello Stato etico. Verità e Potere, pensiero ed azione non coincidono. Sono due mondi distinti. Il pensiero – l’intellettuale – ha anzi il compito di controllare e limitare la forza dello Stato, non farsene apologeta.

Certamente l’intellettuale, in quanto cittadino, deve andare in guerra, difendere la patria e lottare per la sua vittoria. Ma non per questo può venire meno alla sua ricerca di verità, indossando l’uniforme e l’elmetto anche quando pensa e scrive. Non può tradire la sua missione universale giustificando la guerra come un atto di verità della propria parte senza indagare sulle origini della guerra. Non può soprattutto presentare mai il nemico come un demonio ed un essere alieno che non apparterrebbe alla comune umanità, privo di ragioni e dello stesso uso della ragione.
Sta qui il vero tradimento degli intellettuali: nel presentare la guerra del nemico come immorale e quella propria come santa.

L’inganno diventa poi diabolico quando si fa credere che ci possa essere una guerra in difesa di una forma di vita superiore che sia capace di mettere fine alle guerre. La vita degli Stati in quanto soggetti pubblici superiorem non recognoscentes si svolge e si svolgerà sempre in uno spazio al di là del bene e del male, all’ombra e sotto la spada di Damocle della guerra. Gli intellettuali possono limitare e confinare (purtroppo non anche eliminare) questa predisposizione genetica degli Stati, solo se non rinunciano alla loro missione di verità e di universalità. Attribuire al proprio Stato ed agli Stati alleati le categorie del  Vero e del Bene (ed agli altri quelle del Male assoluto) è una reincarnazione del mito totalitario dello Stato etico ed una classica manifestazione dei vecchio e nuovo tradimento dei chierici.

La civiltà occidentale consiste nel sostenere, anche in tempo di guerra, con Cicerone: “Amicus Plato, sed magis amica veritas”.

Aggiornato il 11 aprile 2022 alle ore 10:42