Condizionatori di guerra e ventagli di pace

A tutto c’è un limite di decenza, anche a un discorso di un’alta carica dello Stato che si rivolge ai cittadini. Quel limite non andrebbe mai oltrepassato. Purtroppo, l’altro giorno il premier Mario Draghi, intervenendo alla conferenza stampa di presentazione del Documento di Economia e Finanza (Def), appena approvato in Consiglio dei ministri, ha letteralmente sbarellato. Riguardo alla possibilità di applicare un embargo totale all’importazione di gas dalla Russia, il presidente del Consiglio si è detto pronto a seguire le decisioni che verranno prese in sede Ue. Perché tanta remissività rispetto all’attivismo degli altri Paesi che fanno sentire, eccome, la loro voce? Come se l’Italia fosse l’ultima ruota del carro. Già soltanto il tono rinunciatario giustificherebbe il contorcimento delle nostre budella, ma ciò che proprio non si può sentire è la motivazione con la quale Draghi espone la necessità di fare sacrifici pur di giungere alla pace in Ucraina. Il premier l’ha messa giù così: “Preferiamo la pace o il termosifone acceso, o meglio ormai l’aria condizionata accesa tutta l’estate? Questo secondo me ci dobbiamo chiedere”. Ma che razza di domanda è?

Il genio della finanza globale dà i numeri. Una cosa tanto stupida non la si aspetta da un frequentatore di mescite di bevande alcoliche, figurarsi da un capo di governo. Fosse così semplice: pace in cambio della rinuncia a un paio d’ore di condizionatore d’aria sparato a palla la prossima estate. Un minimo di onestà intellettuale avrebbe suggerito di porre la questione in tutt’altro modo. Preferiamo la pace in Ucraina o salvare l’apparato produttivo del Paese? Andando oltre: preferiamo la pace in Ucraina o fronteggiare la più grave ondata di disoccupazione che la Storia italiana abbia conosciuto dalla fine del Secondo conflitto mondiale? Preferiamo la pace in Ucraina o impedire che i numeri della povertà in Italia raddoppino? Legittimo, e nobile, rispondere: meglio la pace in Ucraina, a patto che si abbia piena consapevolezza delle conseguenze che tale scelta comporterà per il nostro futuro. Non parliamo di refrigerio contro la calura estiva, ma di sopravvivenza. E non lo dicono gli “amici italiani di Putin”, piuttosto lo si legge nelle carte del Def presentato dal ministro dell’Economia, Daniele Franco.

Al momento, l’esserci schierati apertamente al fianco dell’Ucraina contro la Russia ha avuto forti ripercussioni sulle aspettative di crescita dell’economia, determinandone un netto ridimensionamento. La guerra ha imposto una stima al ribasso: la crescita del Prodotto interno lordo si fermerà al 2,9 per cento, in calo rispetto alla previsione di crescita, per il 2022, del Pil programmatico al 4,7 per cento, contenuta nella Nadef (Nota aggiuntiva al Documento di Economia e Finanza), elaborata lo scorso settembre. E già sarebbe una stima ottimistica, visto che il Centro Studi di Confindustria l’ha tagliata a +1,9 per cento. Il nodo resta il costo dell’energia che lo stato di guerra prolungato di certo non aiuta a normalizzarsi.

Negli scenari ipotizzati dagli economisti di Bloomberg gli odierni costi, che oscillano intorno ai 120 dollari al barile per il petrolio e 130 euro a megawattora per il gas, potrebbero ulteriormente lievitare fino alla soglia psicologica dei 200 dollari il barile di petrolio nel corso del secondo trimestre, prima di tornare a 150 dollari nel terzo e quarto trimestre e i prezzi del gas sfiorare i 200 euro a megawattora. Il che produrrebbe una contrazione economica particolarmente profonda nella seconda metà del 2022. Se tale scenario dovesse inverarsi, la manifattura italiana sarebbe messa fuori mercato a causa dei costi insostenibili di produzione. Le conseguenze le pagherebbero le famiglie, in particolare delle fasce di reddito basse e medio-basse, in termini di crollo verticale del potere d’acquisto dei salari e d’insufficienza delle entrate mensili. La crisi che farebbe schizzare in alto i prezzi dei beni al consumo sarebbe direttamente connessa alla minore disponibilità di materia prima energetica per alimentare i processi produttivi. Cosa dice il Governo? Che, sul fronte dell’approvvigionamento energetico, siamo coperti fino al mese di ottobre. E dopo? Bruceremo cartoni e copertoni d’auto per scaldarci e generare energia elettrica per fare andare avanti le industrie? Mai assistito a una prova di irresponsabilità tanto smaccata. Da una parte si vuole chiudere con Mosca, dall’altra non si ha la più pallida idea di come si possa reperire quel 48 per cento del nostro fabbisogno energetico che oggi viene soddisfatto dal gas russo. Se si volesse fare sul serio, prima si dovrebbero trovare le soluzioni alternative e poi, semmai, fare il beau geste di dire a Vladimir Putin: tienitelo il tuo maledetto gas. Soluzioni alternative non significano favole e sogni a occhi aperti. Al contrario, richiedono scelte forti nel breve, medio e lungo termine. Da subito andrebbero rimesse a regime tutte le centrali a carbone disponibili; da domani, si dovrebbero spingere al massimo delle capacità le strutture estrattive di gas e petrolio sul nostro territorio e sulle aree marine adiacenti alle coste. Da dopodomani, bisognerebbe investire nel carotaggio e nella trivellazione del sottosuolo e del fondale marino alla ricerca di nuovi giacimenti di idrocarburi. In poche settimane, riprendere lo studio per una rapida conversione al nucleare. Si obietterà: c’è stato un referendum che ha chiuso per sempre quella strada. E con questo? C’è stato nel 1987 anche un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, passato con l’83 per cento di voti favorevoli, e non sembra che la politica via abbia dato seguito come avrebbe dovuto. Ma tutto ciò non si può fare perché la sinistra non lo permette. Si tratta della medesima sinistra che, per bocca del segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, urla e strepita perché si giunga all’embargo totale del gas dalla Russia.

Fortuna che in Europa c’è ancora chi non ha perso la testa. A parte il solito Viktor Orbán, i governi di Germania e Austria si oppongono alla escalation delle sanzioni contro Mosca. Finché ci sarà il loro no Draghi sarà costretto a ribadire che: “L’embargo del gas non è ancora e non so se sarà mai sul tavolo”. Alleluia! Il pragmatismo germanico ci terrà fuori dai guai. Ciononostante, la faciloneria con la quale il nostro premier si è detto disponibile a ricorrere alle misure estreme contro la Russia, succeda quel che succeda, deve interrogarci su un punto nodale per la tenuta democratica del nostro Paese. Può un Parlamento, che non rispecchia già da tempo la volontà dell’elettorato, assumere una decisione destinata a cambiare drasticamente le condizioni di vita degli italiani? La scelta radicale di rompere con la Russia non può e non deve appartenere a pochi individui, ma va condivisa con la popolazione. Non si può farlo sulla pelle dei cittadini, come se questi non esistessero. Occorre un nuovo Parlamento e un nuovo Governo, pienamente legittimati dalla volontà degli elettori a prendere decisioni che potrebbero avere effetti devastanti.

L’orizzonte del 2023 è troppo lontano? Allora che si vada a elezioni anticipate, anche perché il tanto osannato “Governo dei miracoli” di Draghi alla prova dei fatti non è che sia stato poi tanto provvidenziale. Nel frattempo, per risparmiare energia elettrica e gas stacchiamo la spina ai ventilatori e ai condizionatori d’aria, ignari strumenti del neo-imperialismo putiniano e diamoci sotto con i ventagli. L’olio di gomito è roba nostra. O importiamo anche quello?

Aggiornato il 10 aprile 2022 alle ore 09:09