Tra le conseguenze della guerra russo-ucraina c’è la corsa al riarmo dei Paesi occidentali. Italia compresa. Lo ha confermato il premier Mario Draghi in risposta all’ordine del giorno sull’aumento della spesa per la Difesa al 2 per cento del Pil, presentato alla Camera dei deputati lo scorso 16 marzo dalla Lega e approvato a larghissima maggioranza (favorevoli 391 su 421 presenti, 19 no di Alternativa, Sinistra italiana ed Europa Verde). L’ordine del giorno impegna il Governo ad “avviare l’incremento delle spese per la Difesa verso il traguardo del 2 per cento del Pil, dando concretezza a quanto affermato alla Camera dal presidente del Consiglio il primo marzo scorso e predisponendo un sentiero di aumento stabile nel tempo, che garantisca al Paese una capacità di deterrenza e protezione, a tutela degli interessi nazionali, anche dal punto di vista della sicurezza degli approvvigionamenti energetici”.
Di che numeri parliamo? Prendendo a base di calcolo il valore del Pil, fissato ai prezzi di mercato per il 2021 (primo anno della ripresa) a 1.781.221 milioni di euro, si stima che il 2 per cento da destinare al capitolo della Difesa possa essere circa 36 miliardi di euro. Un salto in avanti considerevole se lo si raffronta ai saldi del 2021, anno in cui le spese finali del ministero della Difesa sono state postate in Bilancio per 25 miliardi e 794 milioni di euro, di cui soltanto 5 miliardi e 656 milioni di spesa in conto capitale. Il grosso è andato alla spesa corrente. E non tutta pienamente attinente ai tradizionali compiti delle Forze armate. Come, ad esempio, gli 8,2 milioni di euro utilizzati nell’operazione di ordine pubblico “Strade sicure”. Più denari non devono alimentare sprechi di risorse pubbliche. Perché ciò non accada bisogna che ci si intenda prima su quale “Difesa” per il nostro Paese. Non basta pensare che tutto si risolva guardando appena fuori l’uscio di casa nostra. Come dimostra la guerra di questi giorni, l’interesse nazionale italiano si estende oltre il perimetro regionale e tocca aree del mondo lontane. Ora, se l’obiettivo è dotarsi di efficaci strumenti d’azione per rispondere adeguatamente alle mutate esigenze di sicurezza, non è sufficiente spendere per riammodernarsi: occorre una riconversione del modello di Difesa. Se si va sul campo non da peacekeeper inviati dalle Nazioni Unite ma sotto l’ombrello Nato, con unità in assetto da combattimento, occorrono mezzi pesanti, dai carri armati alle artiglierie; se si crede nella efficacia dei velivoli pilotati da remoto (droni) è indispensabile che questi siano armati e predisposti per operazioni d’attacco e non soltanto per la ricognizione aerea. Si richiede innovazione nella costruzione dei sistemi d’arma, ma questa presuppone la maggiore indipendenza possibile, se non nazionale almeno europea, nella capacità di generare in proprio la gamma di tecnologie funzionali alle capacità militari in situazioni critiche. Attualmente non è così.
Gli Stati Membri dell’Ue per ottenere l’intera gamma delle capacità militari devono fare riferimento a fornitori di solito americani o alla collaborazione con programmi di armamento multinazionali (Claudio Catalano). Ma è anche questione di risorse umane. Un programma di sviluppo della Difesa non può prescindere dal potenziamento degli organici militari. Nell’ultimo decennio siamo andati al contrario, facendoci merito di aver sforbiciato il comparto fino all’osso. Nel 2012, la riduzione degli organici è stata di circa il 25 per cento della sua consistenza, cioè si è passati da 190.000 militari e 30.000 civili a 150.000 militari e 20.000 civili. Si comprende benissimo che un intervento radicale in questo settore richieda uno sforzo economico che, nelle condizioni date, l’Italia non può reggere. Per questo, serve l’Europa. Non si può sentir pronunciare nella stessa frase la parola riarmo e la locuzione “Patto di stabilità”. Delle due, l’una: o si risparmia ma si resta scoperti sul fronte militare o si fa politica di difesa e si spende a debito. Gli investimenti per la Difesa devono restare esclusi dal calcolo del rapporto deficit/Pil, altrimenti non si va da nessuna parte. Come non si arriverà lontano con la proposta della Difesa comune europea. Mettere insieme gli eserciti presuppone che via sia una comune politica estera a muoverli. Attualmente, l’Unione europea è drammaticamente orfana di un’azione unitaria sulla scena internazionale: ognuno suona il suo spartito. C’è la Nato a tenere insieme gli egoismi delle piccole Patrie continentali e a fare in modo che interagiscano obtorto collo sotto un unico ombrello difensivo. Ma la Nato non è l’Unione europea. E anche l’aumento programmato del 2 per cento del Pil da destinare alla Difesa è stata un’esigenza maturata nell’ambito dell’Alleanza atlantica, non in sede comunitaria. La Difesa comune europea dovrebbe svilupparsi a latere dell’impegno nell’ambito della Nato, non in alternativa. Se è così, è lecito chiedersi: a cosa serve una sovrastruttura strategica quando ce n’è già una sovranazionale più grande che funziona e che dispone di un arsenale atomico? La proposta ha senso solo se in prospettiva gli “europei” intendano staccarsi dagli Stati Uniti nella programmazione della difesa dei propri spazi territoriali e dei propri interessi geopolitici. Non accadrà, perché l’autonomia strategica europea è un ballon d’essai. Non c’è chiarezza di idee tra i partner europei e neppure di obiettivi.
Il Governo tedesco del socialdemocratico Olaf Scholz, profittando della crisi russo-ucraina, ha deciso di riarmare il suo Paese (non accadeva dalla Seconda guerra mondiale) investendo 100 miliardi di euro nell’immediato e adeguando la spesa annuale per la Difesa al 2 per cento del Pil, come pattuito in sede Nato. Si dà il caso, però, che il Pil della Germania non sia quello di Cipro o del Granducato di Lussemburgo. Nel 2020, in piena pandemia, la Germania ha chiuso l’anno con un Pil pari a 3.329 miliardi di euro. Ora, il 2 per cento corrisponde pressappoco a 70 miliardi di euro. Domanda: che ci fanno i tedeschi con investimenti in armi per 70 miliardi annui? Danno un contributo forte ma leale alla creazione di un esercito comune europeo oppure provano a rimettere insieme un apparato bellico che faccia da supporto all’aggressività commerciale praticata dall’economia tedesca? Piacerebbe saperlo per adeguarci ai nuovi scenari.
Dopo un’iniziale prudenza verso la politica delle sanzioni alla Russia, Mario Draghi sembra essere diventato lo strenuo sostenitore della guerra a Mosca. Segno che i potenti circoli finanziari d’Oltreoceano, di cui è stato talvolta fedele espressione, l’abbiano rimesso in riga. Ciò ha fatto svanire l’allure di uomo più ascoltato d’Europa, dopo l’uscita di scena della signora Angela Merkel, guadagnato grazie alle performance da banchiere centrale. Per riacquistare credibilità, Draghi deve dimostrare, in Italia, di contare ancora più degli altri. Il modo ce l’ha: sbaragliare lo spauracchio del Cinque Stelle che gli vuole impedire il varo dell’aumento delle spese militari. Probabilmente Draghi non lo farà. Rinvierà l’argomento a tempi migliori, che però non saranno più suoi. Ed è anche giusto così. Trasformare radicalmente il modello di Difesa italiano, cominciando col mandare in soffitta le linee strategiche contenute nel Libro Bianco della Difesa, redatto, nel 2015, su ispirazione dell’allora ministro della Difesa, la piddina Roberta Pinotti, è compito di un Governo sorretto da una solida maggioranza, ben definita nei propri orientamenti di fondo. Ma un Governo del genere nasce soltanto dopo un lavacro elettorale che sanifichi i rapporti tra gli italiani e la democrazia rappresentativa. Perciò, se ne riparlerà nel 2023.
Aggiornato il 27 marzo 2022 alle ore 09:26