Quirinale: il nemico alle porte

A meno di una settimana dall’apertura delle urne per l’elezione del nuovo capo dello Stato proviamo a fare il punto. Il centrodestra ha il suo candidato: è Silvio Berlusconi. Non vi è stata al momento l’ufficializzazione della candidatura perché l’interessato vuole vederci chiaro sui numeri prima di sciogliere la riserva. Cautela legittima ma inconciliabile con l’intima natura del personaggio che resta un combattente e come tale poco propenso a lasciare il campo prima di averci provato. Presupponendo che la coalizione lo sostenga in modo compatto e che nessuno tradisca profittando del segreto dell’urna, i numeri che servono a Berlusconi sono quelli di poco più di 50 Grandi elettori da recuperare fuori del perimetro del centrodestra. Missione complicata dalla perniciosa logorrea di Matteo Salvini, ma non impossibile.

Sul fronte opposto, il Partito Democratico ha riunito la direzione per decidere di non decidere. Il segretario del Pd, Enrico Letta, si trova a gestire uno stato diffuso di panico esploso tra i dirigenti del suo partito, letteralmente terrorizzati all’idea che l’arcinemico Berlusconi non si ritiri dalla corsa. Il Pd non ha un candidato da proporre; è spaccato al suo interno sulla proposta di spingere Mario Draghi verso il Quirinale o in alternativa tentare, alla disperata, di convincere l’attuale inquilino del Colle, Sergio Mattarella, a rendersi disponibile per un bis. Per nascondere la crisi di nervi, Enrico Letta fa lo spavaldo cercando di buttarla in caciara. Sotto le mentite spoglie del chierico buonista che predica pace e concordia, il segretario del Pd provoca il centrodestra con proposte d’intesa che sanno di botte piena e moglie ubriaca. Cosa chiede nello specifico al logorroico Matteo Salvini il “pretino” di Pisa? Di convincere i suoi alleati a mollare Berlusconi per una candidatura condivisa che sia “una figura istituzionale e di garanzia… super partes e non un capo politico, una figura di unità che possa rappresentare tutti e tutto e possa essere in continuità con quello che ha rappresentato il presidente Mattarella, e possa guidare le istituzioni nel modo migliore, in sintonia profonda con il nostro Paese”.

È di tutta evidenza che Letta abbia qualche problema con il latino visto che, a proposito dell’operato di Sergio Mattarella, confonde il significato della preposizione “super” con quello di “pro”. Il profilo del candidato possibile per il leader “dem” è di un moderato di sinistra (Giuliano Amato?) che possa non dispiacere troppo al centrodestra. É l’unica concessione che Letta sia disposto a fare all’avversario. Ma non sarebbe gratuita: in cambio vuole un patto di legislatura. Il che, tradotto, vorrebbe dire: niente elezioni anticipate ma prosecuzione dell’esperienza di Governo, senza che un solo mattone dell’attuale costruzione venga toccato. Il “pretino pisano” non vuole le urne perché le teme, né vuole che vengano modificati gli equilibri di Governo perché i rapporti di forza (e di potere) tra i diversi partiti presenti in maggioranza, per come sono stati cristallizzati in occasione dell’ascesa di Mario Draghi a Palazzo Chigi grazie all’accorta regia del presidente Mattarella, vanno benissimo al Pd. Tre ministri di prima fascia ufficialmente del Pd, in più un ministro dell’Istruzione che è un piddino camuffato da tecnico e un ministro della Sanità che appartiene a una micro-formazione parlamentare che nei fatti è una costola del Pd. Niente male per essere il grande sconfitto alle ultime elezioni.

Poi ci sono i Cinque Stelle che non ci dovrebbero essere, visto che non rappresentano un granché. Di certo non parlano in nome e per conto di quel 33 per cento degli italiani che li ha votati nel 2018 e che è stato cinicamente truffato. Anche i Cinque Stelle, come una parte del Pd, vorrebbero che rimanesse al suo posto di presidente della Repubblica “pro-parte”, colui che nel 2019 li ha salvati impegnandosi a non staccare la spina a una legislatura nata morta. Tuttavia, l’unità del maxi-gruppo pentastellato in Parlamento non è più tale, neanche di facciata. Da tempo il Movimento fluido che fu di Beppe Grillo e di Gianroberto Casaleggio si è trasformato in un crogiuolo di istanze tribali e di egoismi personalistici che si combattono senza esclusione di colpi. Giuseppe Conte è leader sulla carta, meno nella sostanza. Comunque, un’eminenza grigia anche i pentastellati ce l’hanno ed è l’enfant prodige Luigi Di Maio. Il giovane ministro degli Esteri, dalla quotidiana frequentazione delle stanze ovattate della Farnesina ha appreso la difficile arte di misurare le parole. Con discreto profitto, visto che il suo silenzio sulla vicenda quirinalizia sta producendo un rumore assordante a sinistra. Enrico Letta e compagni di “Giggino” non si fidano: troppo “democristiano” per lasciarsi intruppare nel piano egemonico del Pd come una rotella qualsiasi della gioiosa macchina da guerra progressista.

A dispetto di Carlo Calenda, che in questo passaggio elettorale non toccherà palla essendosi rivelato un generale chiacchierone senza truppe parlamentari, Matteo Renzi è in campo da battitore libero. I suoi ex compagni del Pd lo considerano, non a torto, il pericolo pubblico numero uno nella partita del Quirinale. Il senatore di Scandicci è la raffigurazione vivente della spregiudicatezza. È pronto a sparigliare i giochi, come fece nel 2019 “aprendo” furbescamente a un accordo Pd-Cinque Stelle per evitare le urne che avrebbero sancito la vittoria schiacciante del centrodestra. Si può dire che il Conte bis sia stato un parto del suo cinismo. Anche stavolta Renzi vuole lasciare il segno guadagnandoci. C’è da scommettere che lo farà. I voti della pattuglia parlamentare di Italia Viva potrebbero risultare determinanti dal quarto scrutinio in poi, soprattutto se a Silvio Berlusconi dovesse mancare una manciata di consensi per superare la soglia della maggioranza assoluta dell’Assemblea. In quel caso, è più che probabile che dall’ex Rottamatore possa arrivare il beau geste, ma non sarà un atto discreto consumato nel segreto dell’urna. E neppure silenzioso. È prevedibile che prima della votazione decisiva Matteo Renzi vada in televisione a spiegare agli italiani le ragioni della scelta di convergere sul vecchio leone di Arcore. E, credeteci: sarà convincente. Al punto che un giorno lontano, nei libri di storia, qualcuno annoterà: “Nel 2022 l’ex capo del maggior partito della sinistra decise d’incoronare il leader storico del centrodestra, Silvio Berlusconi, tredicesimo presidente della Repubblica e questi gliene fu per sempre grato”.

A quel punto, la decisione della sinistra ideologica di fare dell’Aula di Montecitorio la “Stalingrado d’Italia”, cioè l’ultima linea di resistenza dell’esercito del “bene” all’avanzata delle armate del “male”, guidate dal “nemico ontologico” Silvio Berlusconi, non avrà alcun senso. La verità è che sono trent’anni che la parte maggioritaria del Paese attende l’ora del riscatto. Che sia questa la volta buona? Staremo a vedere. Una cosa è certa: se il centrodestra terrà duro fino in fondo – e non cederà alla tentazione di autolesionistici “Piani B” – potrà farcela. Il centrosinistra allargato ai Cinque Stelle non è un fronte granitico ma una massa magmatica che fluisce disordinata in tutte le direzioni. Se sarà Berlusconi il candidato a cui, dopo ripetute votazioni, continuerà a mancare un pugno di voti per passare, non dovrà essere lui a fare il passo indietro ma i suoi avversari a prendere atto della realtà. Vi terremo informati sugli sviluppi.

Aggiornato il 19 gennaio 2022 alle ore 10:20