Il politicamente corretto sta inquinando il diritto in Italia

“Perché ciò non è avvenuto?” Con queste parole conclusive il presidente emerito di sezione della Corte di Cassazione, Pietro Dubolino, si è chiesto pochi giorni fa su l’Opinione come mai il Gip del Tribunale di Agrigento, contro ogni logica giuridica, abbia archiviato il 23 dicembre scorso il procedimento penale contro Carola Rackete e non abbia invece confermato le accuse per i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e disobbedienza a nave da guerra.

Dubolino, in particolare, sostiene – in base alle leggi nazionali e internazionali – che un comandante di una nave, quand’anche abbia effettuato un “soccorso”, non possa stabilire lui, o lei, quale sia il “porto sicuro” più vicino e agire contro le indicazioni delle autorità marittime e di pubblica sicurezza degli Stati titolati a indicarlo. Insomma, se Dubolino ha ragione, una parte della magistratura italiana avrebbe deciso di stabilire che il dovere di soccorso implicherebbe quello di accoglienza in Italia e solo in Italia, che un qualsiasi capitano di nave Ong può attraccare contro la volontà del ministro dell’Interno (che allora era Matteo Salvini, particolare forse non irrilevante) e contro gli ordini dell’autorità militare e che per di più possa impunemente speronare un’imbarcazione della Guardia di Finanza (il che è manifestamente assurdo). Tutto in nome del “dovere di soccorso” in mare, che nessuno contesta, ma che sembra assurgere a “causa di giustificazione” per tutti i reati commessi dopo quel “soccorso” e che da questo logicamente e giuridicamente non discendono affatto di necessità.

Tutto sembra molto assurdo a lume di logica e di diritto. Perché ciò è avvenuto? La prima ipotesi che viene alla mente è che quei magistrati abbiano voluto compiere un atto politico, come colpire la linea del ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Ma sarebbe una spiegazione parziale e riduttiva. C’è qualcosa di più complesso. Sembra esserci in alcuni giuristi e magistrati in Italia una motivazione etica e ideologica extra-giuridica derivata da un generico umanitarismo e da una ricerca di giustizia sociale sostanziale che sembra venire anteposta alla lettera e alla ratio delle norme giuridiche positive. In sostanza, alcuni giuristi e magistrati usano norme di diritto positivo come il “dovere di soccorso in mare” come un grimaldello per aggirare le norme che contrastano con la loro propensione favorevole all’immigrazione incontrollata. Il caso Rackete è indicativo di una tendenza più generale, perché altri casi e in altre sentenze si usa come espediente il diritto al ricongiungimento familiare o il diritto del bambino alla bi-genitorialità e ad avere una famiglia per aggirare norme del nostro ordinamento, come quelle che vietano la poligamia (o la compravendita delle donne).

Sembra confermarlo la circostanza osservata dallo stesso Dubolino con le seguenti parole: “Il provvedimento di archiviazione, come pure, a suo tempo, la citata sentenza della Cassazione, sono stati accolti con entusiastico favore dalla vasta galassia dei partiti, organi di informazione, associazioni, movimenti e così via, pregiudizialmente favorevoli all’immigrazione incontrollata”. Il favore verso l’immigrazione incontrollata si basa sul presunto “diritto” di ogni essere umano a trasferirsi e a risiedere dove desideri. Ma si tratta di un’esigenza etica ideale, non di un vero diritto che, pur auspicato da varie istituzioni religiose e da varie Ong, non ha mai trovato riconoscimento né dalle organizzazioni internazionali, né, a più forte ragione, dagli Stati nazionali. Questi ultimi ne uscirebbero, infatti, letteralmente distrutti perché significherebbe l’abolizione dei loro confini e, grazie anche all’ideologia multiculturalista, del proprio ordinamento giuridico.

Tuttavia, attraverso gli strattagemmi dei magistrati ideologizzati ed eticamente orientati al multiculturalismo vengono introdotte gradualmente e surrettiziamente nell’ordinamento giuridico nuove norme e nuovi “principi generali”, derivati da presunti nuovi “diritti umani”, che non sono diritti, ma aspirazioni ideali di una élite di illuminati, che si ritengono incarnazione del bene e del progresso. In questo senso, i giuristi e i magistrati che si ispirino a tale genere di presunti diritti dell’uomo compiono un atto politico e ideologico volto a positivizzare quei “diritti” creando ambiguamente nuove norme che “fanno giurisprudenza”. E quest’ultima, a differenza della legislazione, almeno in Italia, non è sottoposta ad alcun controllo democratico.

Negli ultimi venti anni sono state, per esempio, emesse sentenze che, conferendo rilevanza alle caratteristiche cultural-religiose e normative dei soggetti in causa, reintroducono di fatto la figura dell’“eccezione culturale” e dell’“attenuante culturale” (proprio come avveniva con la norma del Codice italiano sul delitto d’onore abrogata nel 1981). Violando, così, i principi liberali della validità generale della norma e della eguaglianza giuridica degli individui a prescindere da sesso, razza, religione eccetera. La conseguenza è di introdurre nell’ordinamento giuridico una sorta di “regime giuridico speciale” valido solo per alcuni soggetti in considerazione della loro “cultura” – incluse norme e costumi – o anche in funzione delle ideologie e opinioni politiche.

Secondo il costituzionalista italiano Mauro Zanon “dare rilevanza giuridica ad aspetti esterni al Codice penale non solo è profondamente illiberale ma aumenta quello spazio di arbitrarietà e discrezionalità al giudice che potrebbe portare ad ancora più pericolose derive di relativismo multiculturale”. Fornisco qui solo alcuni esempi di sentenze e di opinioni di giuristi che confermano le tesi sopra esposte.

Perugia: novembre 2021

Il 20 novembre del 2021 il Gip di Perugia ha archiviato la posizione di un marocchino immigrato, El Abdelilah, che – secondo le accuse della moglie Salsabila – le imponeva di portare il velo integrale con la forza, e, anche a tale fine, la minacciava e la picchiava. Il Pm di Perugia, Franco Bettini, dopo 10 giorni di indagine, chiese l’archiviazione del caso al Gip, che la concesse con la seguente motivazione: “Il rapporto di coppia viene caratterizzato da forti influenze religiose-culturali alle quali la donna non sembra avere la forza o la volontà di sottrarsi… La condotta di costringere a tenere il velo integrale rientra nel quadro culturale, pur non condivisibile in ottica occidentale, dei soggetti interessati”. La decisione suscitò la reazione indignata della scrittrice ed ex parlamentare italiana di origini marocchine Souad Sbai: “L’attenuante culturale offende anche noi marocchini. È come se ci fosse l’attenuante mafia per gli italiani all’estero. Ricordo che oggi il Marocco è cambiato: abbiamo nove ministre e non c’è più il niqab”.

Grave precedente”, “queste tradizioni primitive sono abrogate in Marocco e vanno respinte anche in Italia” – protestarono altri marocchini italiani.

Napoli: marzo 2016

Nel marzo del 2016 il Tribunale civile di Napoli ha permesso a una coppia musulmana di ricongiungersi in Italia, nonostante che in base al nostro diritto il loro matrimonio non abbia alcun valore legale. Un geometra somalo di 31 anni, Yusuf M., residente a Napoli, infatti, aveva “sposato” per procura Osman S. a Jedda in Arabia Saudita nel 2013, con una semplice transazione di carattere commerciale firmata davanti a una terza persona. Il “marito” chiese al consolato italiano di Gedda, in Arabia Saudita, il ricongiungimento con quella che definiva “moglie”, ma la nostra sede diplomatica non concesse il visto alla donna, perché mancava la documentazione idonea a dimostrare la sua condizione di coniuge e sostenne che quel contratto non fosse valido come matrimonio nemmeno in Arabia Saudita, anche perché “celebrato” da un uomo che risultava per le stesse autorità saudite un semplice operaio. Tuttavia, il giudice di Napoli, Marina Tafuri, accolse il ricorso di Yusuf, motivando la sua decisione così: “In assenza di elementi probatori che con certezza dimostrino la non autenticità del documento in parola, deve reputarsi che il rapporto di coniugio nel caso trovi fondamento”. In sostanza, con questa motivazione si decideva di riconoscere legalmente in Italia che si possa comprare una moglie, come fosse una merce, e lo si riconosceva come “coniugio”. Inoltre, in quel contratto era prevista anche la clausola del ripudio unilaterale extragiudiziale (in favore del solo marito). Esso era basato interamente sulla sottomissione e l’inferiorità, di fronte alla legge, di una donna. Un quasi riconoscimento della schiavitù.

Eguaglianza e poligamia

Tra i giuristi italiani vi sono state anche esplicite aperture alla poligamia sulla base del principio di eguaglianza.

“La poligamia è contraria al nostro concetto di uguaglianza, ma è vero anche che occorre rispettare una donna che ha contratto matrimonio secondo la religione e la legge del suo Paese e che non può essere spogliata di ogni diritto una volta arrivata qui” dichiarò, per esempio, nel 2008 Roberta Aluffi, docente di Diritto islamico all’Università di Torino. “Formalmente – aggiunse poi Aluffi – già il fatto che lo Stato italiano riconosca solo a una delle spose il titolo di moglie ufficiale non permette di rispettare il principio dell’uguaglianza”. Non ricordò però che alcuni Stati musulmani, come la Turchia e la Tunisia, riconoscono solo alla moglie sposata civilmente i diritti muliebri, tra cui la reversibilità della pensione e i diritti ereditari, e non riconoscono tali diritti alle mogli successive che possono essere sposate solo in moschea. La sua tesi, singolare, era che nel nostro ordinamento giuridico il Diritto religioso islamico e straniero debba avere la prevalenza sulla legge italiana, una prevalenza che nemmeno gli Stati dei Paesi a maggioranza musulmana sono disposti a riconoscere.

Salerno 2017

Esemplari dell’atteggiamento di alcuni giuristi progressisti, ormai influenzati profondamente dal multiculturalismo, sono state le parole pronunciate nel corso di un convegno sulla legalità a Salerno dall’avvocato Carmen Di Genio, membro del Comitato pari opportunità della Corte d’appello di Salerno, che si riferivano a un fatto reale di cronaca e che vennero riportate il 15 settembre 2017 dal giornale Il Mattino: “Non possiamo pretendere che un africano sappia che in Italia, sulla spiaggia, non si può violentare una persona, perché lui probabilmente non lo sa proprio”.

Aggiornato il 10 gennaio 2022 alle ore 09:36