Controcorrente: nessuna lode per Mattarella

Ci abbiamo messo un po’ a metabolizzare il discorso di fine d’anno del capo dello Stato, Sergio Mattarella, perché il messaggio si è rivelato più indigesto del cotechino con le lenticchie, servito in tavola la sera del cenone. Siamo spiacenti, ma non possiamo unirci al coro dei laudatori del presidente della Repubblica che si sono spesi in complimenti sperticati con largo abuso di superlativi. Andiamo controcorrente e spieghiamo il perché. Al riguardo, i tre aggettivi che ci sono venuti in mente ascoltando il discorso presidenziale sono stati: generico, lacunoso, contraddittorio.

Generico. È comprensibile che il capo dello Stato, avendo pochi minuti a disposizione, non potesse infilarsi in un’analisi dettagliata della condizione del Paese. Purtuttavia, qualche considerazione articolata su ciò che è accaduto durante l’anno sarebbe stata apprezzata. Ancor più se la prevedile retorica del tutto-va-bene-madama-la-marchesa fosse stata bilanciata da un minimo di pensiero critico sulle cose che non hanno funzionato. Tanto per intenderci: affermare “dobbiamo ricordare, come patrimonio inestimabile di umanità, l’abnegazione dei medici, dei sanitari, dei volontari. Di chi si è impegnato per contrastare il virus. Di chi ha continuato a svolgere i suoi compiti nonostante il pericolo” è sterile esercizio affabulatorio se non è accompagnato da una seria valutazione dello stato della sanità in Italia, del gap che allontana il Sud dal Nord del Paese anche sul fronte del diritto alla salute, e da una forte esortazione alla politica a impegnarsi a rivedere al rialzo le condizioni contrattuali e remunerative attraverso le quali vengono concretamente ripagati gli sforzi di questo “patrimonio inestimabile di umanità.

Sulle nuove generazioni: “I giovani sono portatori della loro originalità, della loro libertà. Sono diversi da chi li ha preceduti. E chiedono che il testimone non venga negato alle loro mani. Alle nuove generazioni sento di dover dire: non fermatevi, non scoraggiatevi, prendetevi il vostro futuro perché soltanto così lo donerete alla società”. Belle parole! E poi? Come fanno i giovani a prendersi il futuro se è stata costruita una società che non gli concede spazi? A cominciare dall’accesso al mercato del lavoro. In effetti, i giovani, soprattutto quelli culturalmente più attrezzati, non si scoraggiano. Peccato però che il futuro se lo vadano a cercare all’estero, dove solitamente lo trovano e anche piuttosto soddisfacente. Un cenno alla piaga della fuga dei cervelli dall’Italia in luogo della ridondante retorica sui giovani avrebbe reso il messaggio presidenziale più credibile.

Sacrosanto l’invito ad accogliere il nuovo anno come momento di speranza e altrettanto giusta l’esortazione a guardare avanti “sapendo che il destino dell’Italia dipenda anche da ciascuno di noi”. Ma non basta. Perché ogni italiano possa essere protagonista del cambiamento nell’ambito di una comunità di destino è necessario che la res publica non gli metta i bastoni tra le ruote, non conculchi i suoi diritti oltre misura; che lo sostenga nei bisogni reali e non ne deprima le legittime aspirazioni al benessere e alla prosperità. Ora, dopo due anni di stato d’emergenza motivato dalla pandemia, il Governo e le istituzioni possono affermare di aver guidato il Paese sempre e comunque in modo impeccabile? Possono dire che nell’assunzione dei provvedimenti normativi non sia stato mai generato disorientamento nella popolazione? Che tra obblighi e divieti prima messi e nottetempo tolti non si sia combinato qualche pasticcio di troppo? Le scuse presidenziali per gli errori commessi sarebbero state più che appropriate.

Lacunoso. Se ciò che c’era nel discorso del presidente non ha acceso gli animi, sono stati gli omissis a gelarli. Il primo, macroscopico, sullo stato della giustizia in Italia. Ma com’è stato possibile fare scena muta dopo esserne stato, da presidente del Consiglio superiore della magistratura, diretto protagonista? Il 2021 è stato l’anno della “gola profonda” Luca Palamara, il magistrato che ha scoperchiato la pentola puteolente dei giochi di potere all’interno della magistratura e delle mascalzonate compiute da alcuni magistrati attraverso il killeraggio mediatico-giudiziario dei politici sgraditi. In un Paese normale sarebbe bastato leggere il libro-confessione scritto a quattro mani da Palamara e Alessandro Sallusti per far venire giù non già qualche pezzo del cornicione di Palazzo dei Marescialli ma l’intera impalcatura della giurisdizione in Italia. Invece, per il presidente Mattarella: niente da segnalare. Ma i vuoti del discorso presidenziale non finiscono qui. Non una parola spesa sul dramma, condiviso con gli alleati occidentali, dell’indecoroso abbandono dell’Afghanistan nelle mani dei talebani dopo venti anni di sacrifici economici e di vite umane affrontati dal nostro Paese. Con una classe politica di sinistra che si sciacqua continuamente la bocca con concetti del tipo parità di genere, quote rosa, gender e altra mercanzia di uguale tenore, abbiamo voltato le spalle alle donne afghane riconsegnandole alla repressione sanguinaria dei peggiori tra i fondamentalisti islamici. Almeno un ci-spiace, non sarebbe stato male al posto di un assordante silenzio. E sull’euro, niente da dire? Ricorrono i venti anni dalla sua entrata in vigore. Per alcuni versi la moneta unica è stata un’opportunità. Tuttavia, c’è stato un rovescio della medaglia che non può essere taciuto. Lo sciagurato tasso di conversione euro-lira ha determinato pesanti scompensi nella tenuta della coesione sociale, con ceti che si sono impoveriti e da allora non si sono più ripresi mentre ristretti gruppi sociali ne hanno tratto eccessivo vantaggio. Comunque sia, l’euro ha comportato una rivoluzione che ha inciso sugli stili di vita e sulle aspirazioni degli italiani. Perciò meritava di essere ricordato.

Contraddittorio. Le parole, come sosteneva Carlo Levi, sono pietre. Bisognerebbe usarle con cautela. Nella vaniloquente solennità del momento, il capo dello Stato ha ricordato agli italiani che “ciascun Presidente della Repubblica, all’atto della sua elezione, avverta due esigenze di fondo: spogliarsi di ogni precedente appartenenza e farsi carico esclusivamente dell’interesse generale, del bene comune come bene di tutti e di ciascuno. E poi salvaguardare ruolo, poteri e prerogative dell’istituzione che riceve dal suo predecessore e che – esercitandoli pienamente fino all’ultimo giorno del suo mandato – deve trasmettere integri al suo successore”.

Spogliarsi di ogni precedente appartenenza: Mattarella lo ha fatto? Abbiamo qualche dubbio in proposito se proprio lo stesso presidente in altra parte del discorso asserisce che: “La governabilità che le istituzioni hanno contribuito a realizzare ha permesso al Paese, soprattutto in alcuni passaggi particolarmente difficili e impegnativi, di evitare pericolosi salti nel buio. Cos’è per Mattarella governabilità? Tenere il Partito Democratico al Governo, a qualsiasi costo? Quale sarebbe stato il salto nel buio? Interrompere la legislatura e portare il Paese al voto anticipato, nel 2019, dopo il disvelamento della clamorosa truffa perpetrata dai Cinque Stelle ai danni degli elettori? E la decisione di rifiutare la nomina a ministro dell’Economia del primo Governo Conte – quello Lega-Cinque Stelle – a Paolo Savona, uno dei pochissimi economisti in grado di tenere testa ai fautori dell’austerity anti-italiana annidati a Bruxelles, è stata presa per evitare al Paese di sprofondare nelle viscere della terra o per fare un favore ai padroni del vapore europeo? Impedire di fatto al centrodestra l’accesso al Governo del Paese è stato un servigio reso alla Patria o a una parte ben individuata e politicamente collocata di essa?

No, presidente Mattarella, la sua permanenza al Quirinale non sarà ricordata per aver perseguito l’interesse generale con imparzialità.

Aggiornato il 07 gennaio 2022 alle ore 18:05