Povera Patria

Nel divertissement prenatalizio su chi sarà il prossimo inquilino del Quirinale, Giorgia Meloni aggiunge un passaggio al fulmicotone. La leader di Fratelli d’Italia vuole un presidente eletto per fare gli interessi nazionali e perciò non lo vuole del Partito Democratico.

Non accetteremo compromessi, vogliamo un patriota”, queste le parole di Giorgia, scandite dal palco di Atreju, tradizionale kermesse annuale dei giovani della destra italiana. Se le parole sono pietre, quelle della Meloni sono un macigno. Cancellata (finalmente) la stucchevole oleografia dei “buoni” presidenti della Repubblica che avrebbero anteposto il bene degli italiani agli interessi della propria parte politica, la presidente di Fratelli d’Italia costringe tutti, amici e nemici, a riflettere sul perché il concetto di patriota non sia compatibile con l’appartenenza al Partito Democratico. Ragione per la quale, dopo anni di occupazione “piddina” del Quirinale, oggi s’imponga una svolta in senso inverso nella scelta del presidente.

Ma procediamo con ordine. Chi è il patriota e cos’è la Patria? Per il vocabolario della lingua italiana della Treccani, patriota è “persona che ama la patria e mostra il suo amore lottando o combattendo per essa”; per Patria il dizionario Treccani intende “il territorio abitato da un popolo e al quale ciascuno dei suoi componenti sente di appartenere per nascita, lingua, cultura, storia e tradizioni”. Due definizioni esaurienti, anche se riguardo alla parola Patria preferiremmo porre l’accento sull’etimologia: “terra dei padri”, dal greco πατήρ (padre). “Patria” esprime il medesimo concetto che, nella lingua tedesca, è racchiuso nel sintagma “Blut und Boden” (sangue e suolo) dal quale prende vita l’idem sentire de re pubblica, fondamento costitutivo di ogni democrazia, degli antichi e dei moderni.

È sorprendente che la Meloni ponga la pregiudiziale dell’acclarato spirito patriottico del futuro capo dello Stato, con ciò sbarrando la strada a un candidato della sinistra. Eppure, la richiesta non è infondata. Dalla caduta del muro di Berlino e dal crollo del comunismo, la sinistra nel nostro Paese non ha rinunciato al cosmopolitismo antinazionale iscritto nel proprio Dna, salvo a concedersi una lieve correzione di rotta, imposta dall’evoluzione delle dinamiche storiche: a un terzomondismo anticapitalistico e rivoluzionario per ragioni di sopravvivenza si è convertita all’europeismo di maniera dei fautori del Super-Stato europeo. Il professore Gianfranco Pasquino, in un articolo a sfondo didascalico pubblicato sul Domani”, scrive: “Per me patria è dove si è affermata ed esiste la libertà. Ne consegue che patriota è colui che si propone di acquisire la libertà nel luogo in cui vive e lotta per questo obiettivo”. E aggiunge: “Il/la patriota è giunto a ritenere che la libertà non si difende e meno che mai si amplia chiudendosi nei confini della patria geografica”.

Bizzarra idea di patriottismo quella di Pasquino che, in un tortuoso avvitamento lessicale, subordina l’appartenenza identitaria di ogni individuo al grado di libertà acquisito, come se vivere temporaneamente, pur contrastandolo, sotto un Governo che conculchi le libertà individuali fornisse la motivazione per recidere le proprie radici esistenziali e darsela a gambe. Pasquino conclude col teorizzare un ossimoro: patriota è chi nega la Patria. A provocare ancor più l’orticaria ai “buoni” è l’uso della parola nazione. Nell’immaginario collettivo della sinistra il termine, ambiguamente sovrapposto a quello di “nazionalismo”, evoca le peggiori pulsioni razziste, guerrafondaie, colonialiste attribuite dalla macchina propagandistica dei progressisti alla destra “brutta, sporca e fascista”. Tuttavia, per quanto il mainstream del politicamente corretto tenda a nascondere la realtà, sta di fatto che la pretesa di chiarezza imposta da Giorgia Meloni sul grado di patriottismo del presidente della Repubblica non solo è compresa ma è largamente condivisa dall’opinione pubblica. Perché?

Esiste un nodo storico che pesa sull’identità italiana, e che la gente comune avverte, nient’affatto risolto: il ritardo nella costruzione di uno Stato nazionale. La discrasia temporale tra la costituzione dell’Italia come nazione e la composizione politica di una comunità nazionale (1861) è di ben otto secoli. L’idea d’Italia-nazione, drammaticamente riscoperta nelle trincee della Prima guerra mondiale, scorreva già nella terzina aspra del sommo poeta: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!” (Comedia, Purgatorio, VI Canto). Un tempo troppo lungo perché non incidesse nel substrato antropologico del nostro popolo impedendo a una diversa consapevolezza identitaria di crescere e radicarsi nelle generazioni attraversate.

Non è un caso se Giuseppe Prezzolini attribuisse al ritardo della formazione dello Stato nazionale le maggiori responsabilità per il diffuso spirito di anarchismo individualista, stigma caratteriale dell’italiano medio. Ciò spiegherebbe molto del comportamento della nostra gente, della sua naturale diffidenza verso lo Stato e le sue istituzioni, della tendenza a rappresentarsi più come controparte che come parte della “cosa pubblica”. È stato Luigi Barzini a scrivere che “il nostro è un Paese i cui abitanti, soggetti per secoli a rapaci oppressori stranieri e a sovrani inefficienti, hanno dovuto, per difendersi, sviluppare e perfezionare virtù private e vizi pubblici”.

È ciò spiega anche, ma non giustifica, il fatto che in alcune aree del Paese l’anti-Stato della criminalità organizzata controlli il territorio, con il consenso passivo della popolazione, più di quanto lo faccia lo Stato. È chiaro che in tale scenario la scelta del presidente della Repubblica rivesta un significato metapolitico. Il capo dello Stato dovrebbe rappresentare il punto di congiunzione tra il principio di Stato e l’idea di nazione. Ma tale prefigurazione di ruolo non può essere nelle corde della sinistra che storicamente si è nutrita di ideologie universalistiche, a cominciare dal marxismo. E continua a farlo inseguendo le utopie del multiculturalismo e del massimalismo moralistico delle sue avanguardie intellettuali. La cultura definisce e circoscrive l’identità di una nazione. Per questa ragione la cultura, per affermarsi e riconoscersi, ha bisogno di territorialità. Ne parla Montesquieu ne “Lo spirito delle Leggi”: la Repubblica democratica ha bisogno di spazi ristretti.

La coesione sociale è favorita laddove agiscano con maggiore efficacia i rapporti di parentela e di vicinato che connettono l’idea di Stato a quella di una grande famiglia. I progressisti confidano nelle radiose sorti di una generica umanità in un mondo senza confini. Al contrario, i patrioti hanno a cuore qualcosa di concettualmente più definito e allo stesso tempo tangibile che è l’umanità di prossimità, cioè quella porzione circoscritta del genere umano che si trova a interagire e a relazionarsi, in un determinato contesto, con ogni individuo nell’arco della sua esistenza. Cultura è parlare la stessa lingua, riconoscersi nella stessa storia, rivivere le medesime tradizioni, avere rispetto per il Mos maiorum, approcciare la spiritualità e il trascendente alla stessa maniera, praticare le medesime scale valoriali e decrittare allo stesso modo i codici morali. Se tutto ciò venisse a mancare, se il veleno del multiculturalismo prendesse il sopravvento costringendo lo Stato – come già sta avvenendo nelle società occidentali avanzate – a trasformarsi in un pelago popolato di isole etnico-culturali chiuse, distanti tra loro e non comunicanti, l’idea di comunità di destino declinerebbe rovinosamente.

Ecco perché un personaggio di sinistra che la pensi e agisca nel senso indicato dal multiculturalismo sarebbe l’antitesi del patriota. Ecco perché un capo dello Stato che, come auspica Pasquino nel suo articolo, rinnegasse il principio che sta dietro l’espressione idiomatica my country, right or wrong (giusto o sbagliato, è il mio Paese), non verrebbe riconosciuto dalla gente comune come un vero patriota. E non gli basterebbe portare la mano sul cuore quando allo stadio s’intona l’inno nazionale. Già, perché al presidente della Repubblica italiana, all’opposto di quanto si dica a proposito dell’imparzialità dei giudici, non basta sembrare un patriota ma occorre che lo sia. Fino al midollo.

Aggiornato il 20 dicembre 2021 alle ore 09:29