Intelligenti, intellettuali, intellighenzia. E la loro influenza sulla società

L’Atene del V Secolo a.C. pullulava di intelligenti. Per dirla meglio, da allora non c’è mai più stata nella Storia una tale concentrazione di intelligenze, specialmente se rapportata alla popolazione. Erano persone intelligenti nel più puro significato della parola. Ma non si consideravano intellettuali né pensavano di costituire l’intellighenzia della Grecia, benché Atene fosse davvero la “Scuola dell’Ellade”. Erano sapienti, sophoi, come Solone, reputato uno dei sette saggi dell’antichità, e lo stesso Socrate, che pure confessava di non sapere nulla. Già alla fine del secolo d’oro, però, sophistes, sofista, prese ad indicare “maestro a pagamento” e, infine, anche “ciarlatano”, perché insegnava l’arte di dire e persuadere, a prescindere dalle competenze e dai contenuti.

Bisogna aspettare l’Ottocento (quando alla metà del secolo Pëtr Boborykin e Ivan Turgenev coniarono in Russia il termine intelligencija ed allorché in Francia a fine secolo il Manifeste des intellectuels ne schierò la crema in favore di Alfred Dreyfus, come ricorda la voce Intellettuali del “Dizionario di politica” Norberto Bobbio-Nicola Matteucci) per veder comparire sulla scena culturale e politica gl’intellettuali e l’intellighenzia nel senso proprio e pieno dei due termini, mentre gl’intelligenti quelli erano e quelli sono in ogni tempo.

Dunque, soltanto in epoca moderna, piuttosto vicino a noi, è sorta la questione teorica e pratica del rapporto tra intelligenti, intellettuali e intellighenzia, mentre la loro influenza sulla società è affatto scontata, dall’antichità ad oggi, essendo le differenze qualitative e quantitative delle varie epoche determinate dall’estensione e dalla tipologia dei mezzi disponibili per influire sulla formazione delle opinioni nella società. Con l’avvento di Internet, e dei suoi annessi e connessi social, la capacità di suggestionare i pensieri, i sentimenti, le volontà di un pubblico virtualmente illimitato non è più appannaggio esclusivo o prevalente né degl’intelligenti né degli intellettuali ma dello stesso popolino, indistinto e universale. La parola esplicita influencer non è solo un anglismo in omaggio alla lingua della rete, ma la sanzione di un fenomeno nuovo che abbraccia quasi ogni aspetto dell’interazione tra la “cultura” dell’influenzante e i seguaci influenzati, i followers che gli vanno dietro. L’aspetto sconvolgente, al momento largamente inesplorato e dagli esiti imprevedibili, dell’anzidetta questione teorica e pratica sta nel fatto che il mezzo elettronico è utilizzabile tanto dalle aquile quanto dai somari, tanto dai benintenzionati quanto dai malfattori. In breve, l’intellighenzia collettiva della rete non è assimilabile in toto al ceto colto che all’origine evocava.

In che rapporti l’intelligenza sta con gl’intellettuali e l’intellighenzia?  Tali rapporti non sono mai come sembrerebbero intuitivamente. A primo acchito, li diremmo automatici, naturali, visto che i nomi derivano dalla stessa radice latina. L’intellighenzia viene definita come l’insieme degl’intellettuali di una nazione. Una definizione che, all’apparenza, rimanda ad un fronte compatto delle intelligenze. In realtà gl’intellettuali per natura quasi mai formano un fronte compatto. Le intelligenze tendono a non omologarsi. Non sono assolute, bensì settoriali e perciò, fuori dai loro settori, non è difficile che sbaglino. Infine, tante intelligenze non lo sono affatto ma vengono accreditate dall’intellighenzia per convenienze personali o comunanze politiche ovvero le une e le altre assieme.

Che tutte le opinioni siano rispettabili è certamente un’opinione da non rispettare. Lo prova proprio l’intelligenza, che ne vaglia la fondatezza, la logicità, le conseguenze dell’applicazione. Nel secolo scorso abbiamo dovuto constatare la più profonda discrasia tra l’intelligenza e gl’intellettuali, cioè l’intellighenzia, a proposito delle due più distruttive ideologie comparse nelle vicende umane: nazismo e comunismo. Finché siffatte dottrine sembravano trionfare (i mille anni del Terzo Reich, l’ineluttabile avvento mondiale del collettivismo), il fior fiore dell’intellighenzia, avversando il nazismo in favore del comunismo e viceversa, ha dimostrato di essere abbastanza stupido. E stiamo parlando di personalità osannate nel loro campo specifico: letterati, scienziati, politici di prima grandezza. Le quali personalità davano dello stupido ai dissenzienti che non condividevano le loro certezze. La sconfitta del nazismo e del fascismo come l’implosione del bolscevismo non hanno indotto l’intellighenzia ad un genuino pentimento o ad una pubblica confessione dell’errore in cui era caduta. Anzi, l’hanno messa in cattedra a far la morale agli avversari che avevano avuto il torto di avere ragione, essendo stati intelligenti quanto stolida l’intellighenzia. Nella tardiva ricerca della perduta verginità intellettuale, l’intellighenzia ha tuttavia dimostrato, bisogna riconoscerlo, un’intelligente resipiscenza, ma invano, come dimostrò Raymond Aron, un grande intellettuale intelligente: “Per riprendere una espressione del mio amico Jon Elster: a quale condizione si può essere allo stesso tempo marxista-leninista, intelligente ed onesto? Si può essere marxista-leninista e intelligente, ma in questo caso non si è onesti (intellettualmente). Certo non mancano marxisti-leninisti sinceri, ma allora è l’intelligenza che non è granché”.

La pandemia ha posto nuovamente in luce una spaccatura tra l’intelligenza, gl’intellettuali e l’intellighenzia. Come ha ricordato Friedrich August von Hayek, un gigante della conoscenza, ai nostri fini la categoria degl’intellettuali propriamente detti non si compone soltanto degli studiosi professionali, per così dire, ma soprattutto di quei “rivenditori di idee di seconda mano” che hanno “il potere della parola scritta e parlata” mediante il quale eseguono “il filtraggio delle idee” ed esercitano “l’onnipervasiva influenza” sulle masse. Al ceto intellettuale Hayek ascrive “giornalisti, insegnanti, ministri del culto, conferenzieri, pubblicisti, commentatori radiofonici, scrittori di romanzi, vignettisti e artisti, che possono essere tutti dei maestri nella tecnica di diffondere idee, ma che sono di solito dei dilettanti per quanto concerne la sostanza del loro messaggio”.

I media hanno mostrato la logorrea degl’intellettuali del genere, freneticamente impegnati sul campo della pandemia. Sono apparsi dappertutto con la verità in tasca. Non solo gli scienziati qualificati, ma pure una varietà di intellettuali altrimenti caratterizzati, che hanno propalato e ripetuto dai media impazziti ogni genere di apodittiche opinioni sulla materia, mentre i pochi esperti accreditati nutrivano scarse certezze prudentemente esposte. Ludwig Wittgenstein ammonì a tacere su ciò di cui non si può parlare. Il nostro Collodi lo insegnò con arguzia decenni prima in Pinocchio, riferendosi proprio ai medici! Incuranti del monito e dell’insegnamento, i menzionati intellettuali hanno cercato ogni giorno di scovare nell’intellighenzia nazionale altri intellettuali che contribuissero a fornire di minuto in minuto improbabili aggiornamenti sul virus e le terapie, comprese le panacee inventate dai pazzi.

Per qualche lettore o spettatore in più, inebriati dalla libertà d’informazione, i media sono riusciti ad avallare una verità evidente: quanto al Covid-19, l’intellighenzia non risulta intelligente in tutto e per tutto, essendone questi gl’intellettuali. Parlandone in generale, un altro grande intellettuale intelligente, Ludwig von Mises, lo notò con acutezza: “Non sono le persone dotate della miglior vista che possono dirsi esperte in oftalmologia bensì gli oculisti, anche quando sono miopi”.

(*) Pubblicato su beemagazine.it

Aggiornato il 19 novembre 2021 alle ore 09:59