I medici hanno ancora un’anima?

Per capire che i vaccini non sono poi così sicuri – cioè privi di gravi effetti secondari – basta porsi una domanda semplicissima: perché i medici vaccinatori, cioè alcune decine di migliaia di medici di base, prima di praticarli, hanno chiesto e ottenuto dal Governo lo scudo penale? In altri termini, perché hanno preteso di essere esentati per legge da qualunque responsabilità potesse loro derivare dal vaccino, come per esempio quella per lesioni personali o per eventuali decessi? Evidentemente, la risposta è una sola: perché essi per primi non erano – e non sono ancora oggi e non saranno nel prossimo futuro – certi abbastanza della non nocività dei vaccini che nel corso del 2021 sono stati praticati su decine di milioni di italiani. Questa la ragione evidente che ha spinto i medici ad accettare di praticare in modo massivo le vaccinazioni, perché altrimenti, cioè senza la garanzia di non essere personalmente perseguibili, si sarebbero ben guardati dal farlo.

Così facendo, i medici, con loro soddisfazione, sono stati esentati da ogni responsabilità: peccato che insieme alla responsabilità se ne sia fuggita, al punto da divenire introvabile, anche la loro libertà. È infatti osservazione elementare che libertà e responsabilità vadano sempre di pari passo, perché non c’è l’una senza l’altra, ragion per cui chi – come i medici di oggi – ripudiano la responsabilità (per paura delle conseguenze penali), nel medesimo tempo e “uno actu” ripudiano anche la libertà.

Costoro operano perciò ogni giorno senza responsabilità e senza libertà, vale a dire che hanno riposto la loro coscienza (fatta appunto di libertà e responsabilità) nel cassetto, chiudendolo a doppia mandata. Di qui la domanda del titolo: i medici, privati per loro scelta della coscienza, hanno ancora un’anima? Mi pare lecito dubitarne assai. Infatti, se l’avessero avuta, per prima cosa avrebbero rivendicato il proprio ruolo esclusivo nel rapporto fiduciario che il paziente instaura con ciascuno di loro, avrebbero cioè detto al Governo, al Comitato tecnico-scientifico, al ministero, all’Aifa e a chiunque altro fosse stato necessario che nessuno – ma proprio nessuno – può impunemente intromettersi nella relazione fra medico e paziente, la quale, non a caso, è stata più volte qualificata dalle più attente riflessioni sulla deontologia medica come “alleanza terapeutica”.

Ma che alleanza potrà mai esserci se i medici, rinunciando alla propria coscienza professionale – e perciò anche alle proprie competenze scientifiche – preferiscono divenire, come oggi son purtroppo divenuti, semplici esecutori di decisioni terapeutiche che giungono loro dall’alto, già pronte all’uso, confezionate col fiocchetto omaggio e sotto il nome di “protocollo terapeutico” o, per apparire meno invasivi, di “linee guida”? Conosco l’obiezione: tali protocolli e tali linee si son resi necessari perché troppi attacchi giudiziari, sotto forma di richieste di risarcimento del danno, sono state avanzate negli ultimi anni ed era necessario difendersi, difesa resa possibile appunto tramite quella che viene chiamata “medicina difensiva”, strettamente derivata da protocolli e linee guida.

Capisco tutto e son pronto a censurare in ogni luogo la spregiudicatezza di quegli avvocati, privi di scrupoli, che hanno speculato su certe situazioni, convincendo il cliente a dar la caccia giudiziaria al medico, anche quando sarebbe stato assurdo. Va comunque però rilevato che normalmente l’operato del medico viene valutato da un altro medico, cioè dal consulente d’ufficio nominato dal giudice e alla perizia del quale questi si rimette totalmente. Comunque sia, va detto che questa storia dei protocolli è viziata da un peccato originale gravissimo e non emendabile, e che i medici purtroppo hanno messo tra parentesi. Esso risiede nel fatto che il medico non ha il compito di debellare la malattia in astratto, ma di curare il malato in concreto.

Si tratta, come si vede, di due dimensioni diversissime e in potenziale contrasto fra di loro, dal momento che la malattia in sé non è mai curabile. Curabile è solo il malato e capita che per debellare la malattia, il malato, non curato, perisca. Insomma, il medico, preoccupato di seguire i protocolli – anche in funzione difensiva – si dimentica del malato. Se così non fosse, i medici non si sarebbero ridotti, come invece sono ridotti, a fare da semplici esecutori di direttive provenienti dall’alto ma, rivendicando con forza il proprio ruolo e la necessaria autonomia di giudizio, avrebbero messo in scacco il Governo affermando che curare i pazienti – anche con il vaccino – spetta soltanto a loro e non al ministro Roberto Speranza.

Sicché, più che meravigliarmi, ho provato autentica sofferenza quando un mio buon amico, peraltro bravissimo medico e persona di squisito garbo e nobile umanità, mentre si dialogava tramite messaggi telefonici su questi temi, mi ha candidamente scritto: “Il paziente che si vaccina sa perfettamente che la decisione non è stata presa dal medico ma dal ministro della Salute”. Testuale. E testualmente inquietante. Tecnocrazia allo stato puro grazie a un ministro che, indotto da un Comitato di consulenti tecnici, emana direttive che diventano il punto di riferimento esclusivo di un paziente che nessuno ha mai visto e che il medico non è chiamato a curare. Astrazione assoluta. L’anima dei medici dilegua. I pazienti sono rimasti soli.

Aggiornato il 15 novembre 2021 alle ore 13:22