Giorgetti, il picconatore

La recente “picconata” di Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega, è l’ennesimo colpo ai fianchi alla leadership di Matteo Salvini. Per capirci qualcosa, bisogna andare indietro con la memoria, al successo leghista alle Europee del 2019. L’indicazione offerta dagli elettori era interpretabile nel senso di una sostanziale revoca della fiducia ai Cinque Stelle, incoronati appena un anno prima, e di una contestuale investitura di Salvini per la guida del Paese. Nella circostanza, molto è stato detto sui “poteri forti” che si mossero pesantemente perché l’Italia non venisse consegnata al campione dei sovranisti. Quei “poteri marci”, piuttosto che “forti”, trovarono due convinti alleati: Giuseppe Conte e l’inquilino del Quirinale. L’avvocato di Volturara Appula pur di non scollarsi dalla poltrona di Palazzo Chigi avrebbe venduto l’anima al diavolo. E lo ha dimostrato.

Il politico Sergio Mattarella, per non aver concesso, da presidente della Repubblica, alcuna opportunità al centrodestra guidato da Matteo Salvini di provare a formare il Governo all’indomani del risultato elettorale, è tutt’oggi considerato l’estremo baluardo contro le mire della destra. Ma non è tutto. La rilettura degli eventi che caratterizzarono l’estate del 2019 richiede un approfondimento. Ciò che si omette nella narrazione dei giorni del Papeete è che all’interno della Lega era ritornato il “partito dei mandarini”, ansioso di riposizionarsi strategicamente abbracciando i principi del liberismo economico e della globalizzazione e, sul fronte politico, ancorandosi a una visione moderata e convintamente europeista: l’esatto contrario della linea salviniana.

Ai “mandarini” non è mai andata a genio l’alleanza di Governo con i Cinque Stelle in versione pre-capriola contiana a Bruxelles, voluta da Matteo Salvini. L’agenda politica originaria dei grillini della prima ora, infatti, aveva non poche consonanze con il populismo anti-mondialista sul quale era strutturata la Lega 2.0 del nuovo corso salviniano. Nonostante provocasse un pericoloso precedente nei rapporti con gli alleati di centrodestra, la scoperta di un’affinità elettiva tra istanze grilline e leghiste aveva facilitato la soluzione giallo-verde per il Governo del Paese molto più di quanto l’establishment avesse creduto possibile. Poi, l’incomprensibile harakiri del “Papeete”. L’iniziativa è stata universalmente giudicata un clamoroso autogol del leader leghista, sospettato di essere affetto da delirio d’onnipotenza. Effettivamente, le apparenze condannano il “Capitano”. Ma la verità su quella improvvida decisione, i “giornaloni” non l’hanno mai raccontata. Il “Papeete” è stata una mossa scomposta e politicamente autolesionistica, sintomo della debolezza di un leader di partito costretto a cedere alle pressioni della sua classe dirigente affollata di “mandarini” pur di mostrare all’opinione pubblica una finta compattezza granitica della sua creatura politica.

Chi davvero volle la rottura con i pentastellati? Non Salvini ma i “mandarini”. Nessuno ricorda il pressing di Giancarlo Giorgetti sul leader per far calare il sipario sull’alleanza con i grillini. Era il luglio del 2019. E i comportamenti minacciosi della coppia di governatori leghisti del Lombardo-Veneto, che un giorno sì e l’altro pure inviavano ultimatum a Roma – e per conoscenza al loro capo politico – perché si procedesse ad horas a concedere alle regioni del Nord la massima autonomia amministrativa prevista dalla Costituzione? È singolare che, caduto il Conte I e riconsegnato il Paese alla sinistra, di strenue battaglie autonomistiche non si sia avuta più notizia.

Sul “Papeete”: Salvini si è intestato il disastro dell’uscita dal Governo per affermare il principio che il capo della Lega fosse ancora lui. Se non si comprende questo passaggio, non si possono inquadrare le dinamiche carsiche che stanno corrodendo il progetto salviniano dall’interno. Il progetto, avviato dal “Capitano” all’indomani della conquista, nel 2013, della leadership, di impiantare nel solco leghista originario, ormai inaridito dall’evolversi della storia europea e occidentale, un nuovo innesto politico, in apparente continuità con il vecchio, che avrebbe risposto alle istanze di cambiamento manifestate dalla maggioranza degli italiani contro le devastanti politiche dell’austerity, è stato il prodotto di un colpo di genio. Tuttavia, non sappiamo quanto Salvini fosse consapevole del fatto che vi sarebbe stato un prezzo troppo alto da pagare nel portarsi dietro nella nuova avventura sovranista, di respiro nazionale e di tendenza anti-establishment e anti-eurocratica, una classe dirigente che non ha mai creduto a una virgola dei suoi ispirati discorsi sovranisti. È stato uno spericolato gioco d’equilibrio che, col tempo, ha finito per sfiancarlo.

Gioco che è inesorabilmente crollato con l’avvento di Mario Draghi alla guida di Palazzo Chigi. La scelta poi di Giorgia Meloni di collocarsi, con Fratelli d’Italia, all’opposizione mentre Lega e Forza Italia s’incamminavano in pellegrinaggio a baciare la pantofola dell’uomo della Provvidenza, ha fatto scoppiare le contraddizioni latenti nel “Carroccio” sulle quali, fino a quel momento, Salvini era riuscito a tenersi. La formalizzazione di un’offerta sovranista concorrente alla narrazione salviniana, sul fianco destro della coalizione, ha aperto una voragine nel consenso leghista, come attestano i risultati delle recenti Amministrative. É in questa partita a scacchi che Giancarlo Giorgetti fa la sua mossa. Il capo dei mandarini leghisti non ha mai smesso di tessere un’altra trama allo scopo di trasformare ciò che residua della Lega, depurata degli elementi di sovranismo imbarcati nel corso dell’ascesa salviniana, in spina dorsale di una forza di moderata, ancorata al Partito popolare europeo, nel nome della leadership perenne di Mario Draghi e che funga da attrattore delle formazioni minoritarie centriste in fuga dal bipolarismo. Obiettivo di breve termine è d’incorporare nel disegno neo-centrista gli attuali movimenti in crisi d’identità e di consensi, a partire dai Cinque Stelle. Insomma, una roba che vada da Luca Zaia a Luigi Di Maio e ai grillini governisti, passando per Matteo Renzi, per Clemente Mastella e per la frazione “draghiana” di Forza Italia. Un’ipotesi suggestiva, che però non tiene conto del sentimento diffuso degli italiani i quali, in occasione delle recenti elezioni comunali, hanno mandato un segnale fortissimo alla politica scegliendo di non recarsi alle urne.

L’astensionismo ha interessato circa la metà degli aventi diritto. Se questa gente avesse voluto bene a Draghi e ai partiti che lo sostengono sarebbe andata a votare. Se non l’ha fatto è segno che tanto contenta e soddisfatta di come vadano le cose non è. Allora perché dovrebbe precipitarsi a dare fiducia a una cosa che somiglia più a un mappazzone che a un progetto politico organico? La sensazione è che si stia preparando per il 2023 il sequel della fallimentare avventura politica di Mario Monti, stavolta senza che il suo ispiratore – Mario Draghi – ci metta la faccia. Sarebbe un film già visto: è accaduto nella passata legislatura con i fuoriusciti di Forza Italia ed è ricapitato in quella attuale con i grillini convertiti. Liberissimo Giorgetti di provare a giocare sull’equivoco di una differente e più moderata declinazione dell’appartenenza alla destra, ma non racconti frottole alla gente: l’esito delle trame da “utili idioti”, in un contesto di alleanze obbligate per la formazione di maggioranza di Governo, servirà a tenere la sinistra inchiodata al potere. Quella sinistra che sa amarsi molto più di quanto riesca alla destra.

Aggiornato il 08 novembre 2021 alle ore 09:07