La delega fiscale e l’acqua nel mortaio

La delega fiscale, nella versione appena licenziata dal Governo, è poco più di un canovaccio di princìpi generalissimi, linee d’indirizzo che, una volta approvate dal Parlamento, dovranno essere riempite di contenuti dal Governo stesso.

La sua estrema genericità pone due questioni: la prima di legittimità costituzionale, l’altra schiettamente politica.

La criticità costituzionale consiste in questo. La funzione legislativa è esclusiva del Parlamento, a meno che non ricorrano “casi straordinari di necessità e urgenza” o il Parlamento stesso decida di spogliarsi della funzione e di trasferirla al Governo. Nel primo caso, questi può adottare decreti-legge che poi il Parlamento stesso potrà convertire in legge. Nel secondo, invece, la delega al Governo deve contenere “princìpi e criteri direttivi” sufficientemente stringenti, così da vincolarlo su tutto quel che non è di semplice discrezionalità tecnica.

La nostra delega rispetta queste regole? Dubito. Il canovaccio è a tal punto generico da consentire al Governo – a questo od a quelli che verranno – scelte strategiche vere e proprie, che oltrepassano quelle puramente tecniche.

Di qui le criticità politiche. Per comprenderle appieno è necessario almeno indicare i punti qualificanti della proposta: diminuzione delle aliquote dell’Irpef sui redditi medi, graduale eliminazione dell’Irap, riconduzione di tutti i redditi di capitale all’aliquota corrispondente a quella minima dell’Irpef, compresi quelli che, pur prodotti nell’esercizio di imprese o professioni, derivano dall’impiego di capitale; semplificazione dell’imposta sulle società, lotta all’evasione ed elusione, revisione delle aliquote dell’Iva, revisione della riscossione delle imposte, eliminazione dei piccoli tributi, aggiornamento e completamento del catasto, con revisione delle rendite e dei valori degli immobili.

Di fronte a questo “manifesto”, le criticità politiche sono molte. Vi sono quelle “minuziose” indicate da alcuni partiti, ad iniziare da Lega e Fratelli d’Italia, e vi sono quelle di sistema, ancor più serie e profonde. Quelle portate allo scoperto dalle destre si esauriscono in timori prospettici: alla fine della fiera, dicono, si potrebbe assistere all’introduzione di nuovi tributi, come un’imposta patrimoniale, o all’innalzamento di quelli già in vigore. E aggiungono: siccome le vie dell’inferno, pur lastricate di buone intenzioni, sono notoriamente scivolose, per non correre rischi è opportuno stralciare almeno la revisione del catasto o limitarne gli effetti. Possibilmente con un accordo scritto, stando alle ultime richieste di Matteo Salvini.

Le altre criticità, quelle vere, più profonde, invece, sono paradossalmente sottaciute da tutti i partiti d’ispirazione liberale. Eppure, dovrebbero immediatamente balenare ai loro occhi, dato che la leva fiscale, il sistema degli adempimenti, l’accertamento delle imposte, le sanzioni, il sistema giurisdizionale tributario, possono essere tra i principali strumenti di trasformazione della società e dell’economia in senso liberale. E siccome la riforma di cui si discute ha ben poco di liberale, confermando sostanzialmente i pilastri del sistema tributario per come sono, è su questo aspetto che avrebbero dovuto appuntarsi i loro interventi critici. Coralmente e anche pesantemente critici.

Solo da un fisco costruito come “pungolo” delle libertà, infatti, può nascere una nuova sagoma dell’economia e del welfare, un nuovo sviluppo. Perché non partire o ripartire da qui, allora, non iniziare a battere questa strada, anziché continuare a pestare l’acqua nel mortaio con lamentele che rischiano di morire là dove nascono?

Aggiornato il 09 ottobre 2021 alle ore 10:08