Le Comunali del centrodestra: che sberla

Per il centrodestra le Amministrative sono state un flop. Tuttavia, la sua sconfitta non autorizza a dire che la vittoria sia stata del centrosinistra. Enrico Letta e compagni si ritrovano ad aver vinto al primo turno in tre grandi città (Milano, Bologna e Napoli) loro malgrado. Il trionfatore di questa tornata elettorale è stato l’astensionismo, che ha penalizzato il centrodestra. Contrariamente a quanto asserisca la maggioranza degli opinionisti da salotto, i numeri non mentono. Nella grande Milano, Beppe Sala è passato al primo turno con il 57,73 per cento. Di cosa? Del 47,72 per cento degli aventi diritto. Stesso discorso per Napoli. Il candidato della coalizione di centrosinistra, comprensiva del Cinque Stelle che nella capitale del Sud ha la sua roccaforte elettorale (9,73 per cento), ha avuto un risultato bulgaro: 62,88 per cento. Peccato però che alle urne si sia recato solo il 47,17 per cento, cioè meno di un elettore napoletano su due.

Nelle altre grandi città al voto il dato sull’affluenza non è stato dissimile. A Roma ha votato il 48,83 per cento. Nel 2016, al primo turno alle urne si era recato il 57,03 per cento dei romani. Con questa partecipazione ridotta come si fa a parlare di vincitori? La verità è che la politica tutta esce sconfitta. Ma con una differenza sostanziale: i voti delle zone “alte” delle città, dove abitualmente vivono le fasce agiate della popolazione, non hanno mancato l’appuntamento elettorale mentre l’assenza ha riguardato prevalentemente il popolo delle periferie che abita il disagio urbano ed esistenziale. Ciò spiega il miglior risultato della sinistra che, dalla caduta del muro di Berlino e del comunismo, ha scelto di rappresentare i cosiddetti “garantiti” della media e alta borghesia; spiega, inoltre, la quasi scomparsa del Cinque Stelle e il fallimento del centrodestra. Già, perché il successo in passato prima dei grillini e poi della Lega di Matteo Salvini è stato fondato sulla promessa di dare voce ai marginali, agli operai sottopagati, ai precari, ai pensionati, ai commercianti, ai lavoratori autonomi e ai piccoli imprenditori sconfitti della mondializzazione, in una parola: a coloro che non ce la fanno a stare al passo con le dinamiche selvagge del mercato globale.

Ma Cinque Stelle e Lega hanno deluso i loro bacini elettorali con sorprendenti giravolte programmatiche e con la partecipazione ad alleanze spurie e contraddittorie. E in politica, come nella vita, gli errori si pagano. Come i tradimenti. Ora, del Cinque Stelle sapevamo che si sarebbe liquefatto. Per la Lega invece il voto delle Amministrative è stato il primo test dopo la svolta moderata. Adesso abbiamo la certezza: il cambio di linea a favore dell’alleanza di Governo omnibus” per favorire l’ascesa di Mario Draghi a Palazzo Chigi non è stata compresa da tutto l’elettorato leghista. La svolta moderata di Salvini potrà anche piacere ai palati fini dei liberali ma non porta frutti nel paniere elettorale. E visto che, fin quando resisterà uno straccio di principio democratico, governa chi prende più voti, puoi avere delle belle idee e un aspetto presentabile ma, se la gente ti abbandona, la guida del Paese te la scordi. Anche la leggenda metropolitana di un leghismo del Nord desideroso di ritirarsi nei propri feudi elettorali, forti di un consenso del mondo produttivo tout court a Mario Draghi, si è rivelata una “bufala” colossale: la Lega ha perso terreno ovunque, incalzata da Fratelli d’Italia che resta convintamente all’opposizione.

I risultati delle liste parlano chiaro. Nella “Caporetto” milanese del centrodestra il partito di Giorgia Meloni ha raccolto il 9,76 per cento; Matteo Salvini nella sua città il 10,74 per cento. Li divide meno di un punto percentuale. E il mitico Nord operoso che avrebbe dovuto riconoscersi nella virata draghiana di Giancarlo Giorgetti? Chiacchiere. Si prenda il caso di Varese, la patria della Lega bossiana che ha dato i natali a buona parte della dirigenza leghista della prima ora, compreso il buon Giorgetti che è di Cazzago Brabbia, un paesino a 11 chilometri dal capoluogo di provincia. Ebbene, alle Amministrative si va al ballottaggio con il candidato del centrosinistra in vantaggio (48 per cento) su quello del centrodestra (44,89 per cento). La lista della Lega, distante anni luce da percentuali da sfondamento, si deve accontentare del 14,74 per cento contro un significativo 6,94 per cento messo insieme da Fratelli d’Italia.

Se si guarda al dato di Torino, dove al ballottaggio per il centrodestra vi è un candidato, Paolo Damilano, accreditato di simpatie draghiane e sponsorizzato da Giancarlo Giorgetti, il partito della Meloni con il 10,47 per cento mette sotto la Lega (9,84 per cento). E pensare che alle precedenti Comunali, quelle del trionfo grillino con Chiara Appendino nel 2016, Fratelli d’Italia aveva ottenuto appena l’1,47 per cento dei consensi. Stesso spartito alle Comunali nelle principali città friulane al voto: Fratelli d’Italia davanti alla Lega, con discreto margine. Come a Bologna “la rossa”, dove “i neri” della Meloni ottengono il 12,63 per cento al voto di lista contro il 7,74 per cento della Lega. Roba da non credere. È la prova che chi nel centrodestra ha scelto la strada dell’opposizione a Draghi raccoglie maggiori consensi dei partner che hanno scelto di stare al Governo con la sinistra e con i grillini. Vorrà pur dire qualcosa?

Matteo Salvini fa autocritica ma il suo mea culpa è incompleto. Il “Capitano” giustifica la sconfitta con la scelta ritardata dei candidati sindaci. Non basta. Se è vero che le candidature del centrodestra sono state sbagliate, la coalizione deve interrogarsi principalmente sul perché tanta parte del suo elettorato ha deciso di starsene a casa. Salvini si ritrova in un vicolo cieco: appoggiare il Governo Draghi evidentemente non sta facendo il bene di tutto il Paese, ma solo di una parte. Un’altra delle “bufale” messe in circolazione dal sistema mediatico, ossessivamente impegnato a tenere bordone alla sinistra, racconta di una destra che non avrebbe capito il cambiamento del Paese tra un “prima” e un “dopo” la pandemia. Se qualcosa non è più come prima lo è in peggio, non in meglio come vorrebbero far credere i cantori della sinistra. Se errore c’è stato da parte del leader leghista è di non aver colto il disagio che serpeggia tra gli italiani e avergli dato voce nei luoghi della decisione politica. Il fatto che il Pil abbia ricominciato a crescere a ritmo accelerato non significa che sia valso per tutti. Salvini probabilmente è caduto nella trappola del “pollo di Trilussa”: ha pensato che la media del pennuto a testa fosse reale, non valutando a sufficienza che la statistica sarebbe stata uguale anche se un cittadino di polli ne avesse mangiati due e un altro fosse rimasto digiuno. Che è esattamente ciò che sta accadendo agli italiani nella vita quotidiana: ci sono quelli che l’hanno sfangata e quelli invece che con la pandemia hanno perso tutto e sono crollati. Volete che i dimenticati abbiano tutta questa voglia di recarsi alle urne con l’abito buono della festa? Francamente, non sappiamo cosa possa fare il “Capitano” per disincagliare il suo movimento dalle secche su cui è andato ad arenarsi e riprendere la navigazione, magari con una rotta meno ondivaga.

La situazione è complicata. Se la Lega lascia il Governo, esce dalla cabina di comando che gestirà i cospicui fondi europei in arrivo dal Recovery Plan; se continua a sostenerlo, perde il voto degli scontenti. Esiste una terza via che consenta a Salvini di salvare la capra dell’appoggio a Draghi e i cavoli del consenso che lo sta abbandonando? Quel che è certo è che nel centrodestra bisogna cambiare spartito. La litigiosità tra i leader, in particolare tra Matteo e Giorgia, genera disaffezione negli elettori. Due politici giovani e con molto sale in zucca dovrebbero essere più lungimiranti. Ma tant’è, l’ambizione umana sovente gioca brutti scherzi.

Poscritto: non abbiamo fatto cenno al risultato di Forza Italia perché siamo buoni. Si potrebbe definire il nostro “opinionismo compassionevole”. Di là dal successo in Calabria che ha una genesi particolare, e tutta centrata sulle dinamiche e sui rapporti di forza locali, nel resto d’Italia per il partito di Silvio Berlusconi è stato un pianto. Se non ci mette mano il vecchio leone di Arcore il rischio è che quei quattro gatti rimasti in Forza Italia finiranno a stretto giro per farsi risucchiare dalla vegetazione cresciuta all’ombra dell’albero progressista-moderato e irrorata dalle aspirazioni centriste di renziani e calendiani. Sai che allegria.

Aggiornato il 07 ottobre 2021 alle ore 09:44