Lo stalking e quell’idea (fascista) della custodia cautelare

Le regole costituzionali che governano la custodia cautelare rientrano tra quei principi fondamentali di civiltà che, tuttavia, non sono di agevole e immediata comprensione, almeno fin quando non riguardano la nostra persona o quella di persone a noi care. Sono principi – lo andiamo ripetendo fino alla nausea – controintuitivi. Se tizio è gravemente indiziato di aver commesso – o di star progettando di commettere – un reato, perché mai tutte queste condizioni e remore per sbatterlo in galera e buttare la chiave? Conta forse il suo diritto a essere presunto innocente più della sicurezza di tutti noi?

Non a caso questi rabbiosi interrogativi, puntualmente alimentati dai cultori del manettarismo nostrano a ogni episodio di cronaca che minimamente lo consenta, erano gli stessi – come ora vedremo – che nei primi anni Trenta del secolo scorso si ponevano i giuristi fascisti. Il recente, brutale omicidio di una donna stalkerizzata dal suo ex ha, come usa, riacceso la immancabile polemica sul “perché non era in carcere?”; ancor più infiammata dalla difesa (pelosa, in verità, come di chi dice “questa è la legge, arrangiatevi”) di quella decisione cautelare da parte del presidente dell’ufficio Gip di Catania.

Proviamo allora a mettere le cose in fila, per la ennesima volta. Il giudizio cautelare, cioè la decisione di privare della libertà una persona che nessuno ha ancora stabilito se sia colpevole del reato del quale è sospettato, ha inesorabilmente una natura “prognostica”. Non solo il Giudice deve ipotizzare, sulla base di elementi di sospetto rafforzato, che tizio abbia commesso (o si appresti a commettere) un reato; ma egli deve anche pronosticare quali ulteriori danni (alle indagini e alla sicurezza della collettività) potrebbe costui causare se lasciato libero mentre si indaga sulla (solo ipotizzata) sua colpevolezza. E non finisce qui: il giudice dovrà infine anche valutare – una volta ritenuta la necessità e la fondatezza di una restrizione della libertà dell’indagato – quale sia la misura giusta e sufficiente di quella restrizione, tra il carcere e un ordine di allontanamento. Si tratta dunque del giudizio sicuramente più impervio che un giudice sia chiamato a esprimere, un triplo salto mortale carpiato nel periodo ipotetico.

Se è drammatico il giudizio cautelare per il giudice, figuriamoci quanto debba esserlo per l’indagato. Il quale – sarà banale o irritante, ma è la questione delle questioni – non è un mafioso o un omicida o uno stupratore, ma in quel momento è solo sospettato di esserlo; non è (ancora) uno stalker omicida, anche se potrebbe diventarlo. Il sospettato potrebbe essere innocente, estraneo a quelle terribili accuse, e ha il sacrosanto diritto (costituzionale) di vedersi quanto più possibile garantito dall’orrendo incubo di finire in galera prima ancora di essere giudicato. Quel diritto, cari amici lettori, non è il diritto dello stalker assassino o del capo mafia impunito, ma è innanzitutto il diritto di tutti noi, di ciascuno di noi, persona per persona. È una ovvietà, ma si fatica a tenerla presente fino a quando non ci sbatti il grugno.

E allora, vi chiedo: è davvero tanto difficile comprendere la ragione per la quale la legge sia così rigorosa nel fissare regole e condizioni della custodia cautelare? Gli indizi di colpevolezza devono essere “gravi”, cioè non semplici sospetti; ma questo non basta. Occorre, ben giustamente, che i pericoli derivanti dallo stato di libertà del gravemente indiziato siano “concreti e attuali”, cioè non congetturali e astratti (del tipo: è sospettato di omicidio, ergo deve stare in carcere).

È del tutto ovvio, dunque, che i rischi di errore del Giudice siano molto alti. Ma per chi vede il mondo secondo Costituzione, sono rischi innanzitutto per la libertà e la vita degli ingiustamente sospettati, come l’esperienza nostrana tristemente ci insegna; ed è ciò di cui innanzitutto la legge si preoccupa. Può poi accadere (ma è ipotesi di gran lunga più rara) che il giudice erri in senso opposto, non adeguatamente prevenendo una condotta criminale, con esiti che possono essere anche drammatici, come in questa ultima vicenda. Ed è certamente vero che retaggi culturali antichi e intollerabili pesino a volte in modo grave sulla valutazione del reato di stalking.

Si discuta di questo, si approfondiscano le ragioni di quella valutazione del giudice che, con il senno di poi, si è dimostrata tragicamente inadeguata. Ma è davvero desolante vedere rimessi in discussione, a ogni fatto di cronaca, principi fondativi di libertà che distinguono, da sempre, le società civili da quelle totalitarie. Altrimenti, si scelga apertamente di stare dalla parte di chi ha definito la presunzione di non colpevolezza come una “generica tendenza favorevole ai delinquenti, frutto di un sentimentalismo aberrante e morboso, che ha tanto indebolito la repressione e favorito il dilagare della criminalità”. È Marco Travaglio? No, è Alfredo Rocco, ministro di Giustizia fascista, nella sua Relazione preliminare al Codice. O con chi ha scritto: “Se si deve presumere l’innocenza dell’imputato, chiede il buon senso, perché dunque si procede contro di lui?”. È Piercamillo Davigo? No, è Vincenzo Manzini, forse il più illustre giurista fascista. Se trovate impressionanti le similitudini, allora è il caso che vi facciate una domanda, e vi diate finalmente una buona risposta.

(*) Presidente Unione Camere Penali Italiane

Aggiornato il 30 agosto 2021 alle ore 10:17