Una formula troppo sbrigativa

Ormai è diventato un obbligo espressivo, una formula indiscutibile: la democrazia non si esporta. Naturalmente questa posizione non è priva di fondamento poiché, in effetti, trasferire una forma di Governo da un sistema sociale a un altro decidendolo “a tavolino” può risultare poco efficiente ed efficace. Che si tratti di democrazia formale o di democrazia sostanziale, diretta o rappresentativa, sta di fatto che un regime democratico si regge su regole che devono essere condivise e, perciò, assimilate, come ha mostrato fra gli altri Talcott Parsons, dalla cultura di un sistema sociale. Se una società non ha sviluppato autonomamente i pre-requisiti culturali, per iniziativa generalmente di élite che aprono la strada alla democrazia, ogni sforzo esterno risulterà vano.

Tuttavia, la tendenza storica spontanea, in ogni continente, sembra proprio essere quella democratica, nonostante periodici sussulti o reazioni monocratiche. Anche i flussi di profughi che fuggono dall’Afghanistan, come mille altri nel passato recente, si dirigono inesorabilmente verso l’Occidente democratico e non, a quanto risulta, verso la Cina, il Vietnam o magari Cuba. La cosa non deve ovviamente stupire, dato che la democrazia, se liberale, pone in essere sistemi nei quali, almeno tendenzialmente, le regole consentono decisioni politiche controllate dall’elettorato e, sul piano economico, un livello di benessere che non ha confronto possibile con quello che i profughi normalmente lasciano.

È dunque il caso di riflettere sul fenomeno della “esportazione” uscendo dalla sua logica piuttosto approssimativa. I sostenitori di questa formula dimenticano, infatti, che riuscire ad aiutare le popolazioni di vari Paesi in cui domina la tracotanza del potere totalitario a progredire verso l’ideale democratico può anche essere velleitario ma, in sé, è certamente un fatto positivo, forse doveroso e persino conveniente per la stabilità geopolitica ed economica internazionale. Astenersi dal sostenere una intelligente azione di emancipazione significherebbe adottare un ben singolare concetto di “autodeterminazione” dei popoli perché, per esempio nel caso afghano, sarebbe come dire loro: arrangiatevi. D’altra parte, l’esportazione di valori e principi non pare essere una novità storica, perché eserciti religiosi e rivoluzionari di varia indole, in quei casi sulla base di un arbitrario senso del dovere, hanno per lungo tempo cercato di portare sulla “retta via” intere popolazioni senza farsi scrupoli, fra l’altro, di adottare violenze di ogni tipo.

Il caso dell’Afghanistan, probabilmente, sarà invece un banco di prova non già per una nuova “crociata”, per così dire pedagogica, ma per la verifica di un processo spontaneo che in qualche misura sta iniziando a emergere e che va aiutato. Esso non è necessariamente motivato da idee e colte argomentazioni illuministiche ma, più semplicemente, dagli effetti delle informazioni pervasive, continue e accattivanti che le nuove generazioni afghane hanno ormai imparato ad assimilare e desiderare tramite Internet e gli altri mezzi di comunicazione. In questo senso si potrà parlare, se si vuole, sia di esportazione sia di autodeterminazione ma come un unico processo di osmosi e non di una imposizione che i più potrebbero persino non capire.

Aggiornato il 27 agosto 2021 alle ore 09:41