Libertà, scienza e ragionevolezza

È possibile che a breve il Parlamento introduca l’obbligo vaccinale per fasce sempre più ampie di popolazione. Ed è anche possibile che estenda ulteriormente l’obbligo del Green Pass.

Da qui a poco, allora, il dubbio che da mesi contrappunta la discussione si riproporrà amplificato: sono legittime le compressioni delle libertà individuali determinate da questi obblighi?

Per dare risposte soddisfacenti, c’è un presupposto da rispettare: stabilire i parametri sui quali incardinare il ragionamento. Ed è quello che ora proveremo a fare, ancor prima di cercare una risposta a quell’interrogativo.

Il parametro dei parametri, per così dire, è questo: la scienza medica come quasi tutte le scienze dello scibile umano non è infallibile, né possiede verità assolute e immodificabili nel tempo.

“Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato” scrisse Albert Einstein nella lettera a Max Born nel dicembre del 1926 a proposito della teoria della relatività. La teoria popperiana sulla falsificazione, base della moderna metodologia scientifica, muove da qui, da questa frase, e a questa torna.

Oggi è pacifico che le proposizioni scientifiche non sono incondizionatamente vere o incondizionatamente false. Piuttosto, sono rigorose: non vere o false, ma rigorose o non rigorose, finalizzate al raggiungimento del risultato dotato di maggiore attendibilità tra quelli possibili in un dato momento. Un prodotto della ricerca diventa “scientifico”, dunque, se ad esso la comunità scientifica maggioritaria riconosce il rigore del metodo e del risultato, con parametri di validazione oggettivi, predeterminati dalla stessa comunità.

Questo è quello che si può dire per qualificare come scientifico un risultato di laboratorio, una formula chimica, una sperimentazione vaccinale, una teoria giuridica, una ricostruzione storica, una tesi filosofica e via dicendo. Accavallare considerazioni di altra specie – nel nostro caso, quelle economiche, speculative o complottistiche – ripeterebbe l’errore di creare un calderone fumante e sbuffante, capace solo di appannare, con il fumo e con gli sbuffi, il cuore dei problemi. Affrontare “l’universo e dintorni” è errore di metodo e di comunicazione, ma anche errore intellettuale, proprio dei tempi moderni.

Partendo da queste premesse e misurando le parole col metro del buon senso, dal decisore politico è impossibile pretendere scelte a “rischio zero” o prive di margini di incertezza. Quel che si può e si deve pretendere è che decida osservando i criteri di ragionevolezza, bilanciamento e proporzionalità delle limitazioni alle libertà rispetto al fine che vuole perseguire. Ma anche che il suo decidere sia sorretto da prudenza, quale criterio guida dellazione pubblica. Come ad un guidatore di un pullman, così anche a chi guida la cosa pubblica si deve chiedere di agire con prudenza, perché in gioco vi è la sicurezza di ognuno e di tutti.

Le decisioni delle autorità, quindi, non potranno che basarsi su scale probabilistiche di benefici e danni: a fronte di rischi pandemici validati dalla comunità scientifica maggioritaria, il Parlamento dovrà privilegiare il mezzo di contenimento che comporti il minor sacrificio per il privato, ma anche il probabile minor danno per lui e per la collettività, perché solo in questo modo potrà assicurare il probabile maggior beneficio per tutti.

Questo vale anche per l’obbligo vaccinale. Se l’annullamento dell’autodeterminazione individuale “si impone per esigenze di tutela della salute individuale e collettiva”, la prevalenza di queste esigenze può giustificare, come dice la Corte costituzionale, raccomandazioni od obblighi per i singoli a sottoporsi a specifici trattamenti sanitari. Trattamenti da considerare utili “non solo se migliorano o preservano lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche se preservano quello degli altri”. Ragionevolmente, è ovvio.

Aggiornato il 30 agosto 2021 alle ore 09:19