La vittoria talebana scalda il jihadismo nel Sahel

Dopo lo smacco di Kabul, la “voce” della vittoria talebana ha risuonato forte anche nell’Africa sub sahariana. Tuttavia, nonostante la drammaticità sociale causata dalla ritirata statunitense, accompagnata da quella degli alleati, alle forze regolari del Sahel che combattono il jihadismo, il dramma afghano pare non sia servito come esperienza. Così il G5 Sahel, un gruppo di cinque Paesi che cooperano dal 2017 per la lotta contro il dilagante jihadismo, composto da Ciad, Mali, Mauritania, Niger e Burkina Faso, ha dovuto prendere atto della decisone del Governo del Ciad di dimezzare il numero dei propri soldati dall’area più critica del Sahel, quella conosciuta come “dei tre confini” (Mali, Niger e Burkina Faso). Infatti, il 21 agosto, il Governo del Ciad ha comunicato al G5 Sahel di aver ridotto drasticamente le sue truppe schierate da febbraio nell’area dei tre confini, e facenti parte della forza anti-jihadista, riducendo la presenza di seicento unità militari.

Abderaman Koulamallah, portavoce del governo del Ciad, ha comunicato all’Afp (Agenzia France Presse), di avere ridistribuito 600 uomini in Ciad in accordo con le forze del G5 Sahel, dichiarando: “Si tratta di una ridistribuzione strategica per adattarsi meglio all’organizzazione dei terroristi”. Tuttavia, ai componenti della “giunta” del G5 Sahel tale decisione pare non sia stata particolarmente gradita, né adeguatamente condivisa, lamentando atteggiamenti eccessivamente autonomi da parte del Ciad. L’area dei “tre confini” è, insieme al Mali centrale, la regione più colpita dagli attacchi dei gruppi jihadisti affiliati generalmente ad Al-Qaeda o all’organizzazione dello Stato Islamico nel grande Sahara. Le aggressioni di stampo jihadista sono all’ordine del giorno, i morti tra soldati e civili sono migliaia. L’attacco di sabato in un villaggio in Niger ha provocato la morte di una dozzina di civili, lunedì un altro attacco ha causato una quarantina di morti.

Ma quale lezione dà l’esperienza afghana al Sahel e all’Africa? O meglio, quale “insegnamento/messaggio” ha dato il presidente statunitense Joe Biden all’opinione pubblica africana? La sua dichiarazione “le truppe statunitensi non possono e non devono combattere e morire in una guerra che le forze afghane non sono pronte a intraprendere da sole”, ha lasciato scioccata la platea degli utenti Internet africani, che ora temono uno scenario catastrofico, se mai le forze straniere, schierate nel Continente, si ritirassero. La prima considerazione da fare è che gli eserciti africani devono avere capacità difensiva/offensiva propria, l’esperienza afghana insegna; inoltre deve essere chiaro alla popolazione africana che l’interventismo estero è sempre funzionale e guidato dall’interesse della potenza straniera.

Comunque, paragonare l’Afghanistan al Sahel, se può sembrare al momento prematuro, non è azzardato. Lo “status geopolitico” del Sahel ne fa oggi un confine avanzato dell’Europa – e dell’Occidente in generale – da qui l’interesse di inventare molteplici formule giustificanti la presenza. Gli interessi ufficiali della presenza statunitense in Afghanistan, annunciati dal presidente Biden, mascherano imperfettamente la posizione geostrategica e i successivi tentativi di esproprio di cui questo territorio è stato oggetto. Allo stesso modo, quando si esauriscono gli interessi o si ipoteca la sua realizzazione, il ritiro è fatto senza indugiare troppo. L’ideologia islamista accomuna il Sahel e l’Afghanistan, ma i contesti che creano il dissenso differiscono; inoltre l’estremismo nel Sahel non riguarda un solo territorio statale e i Gruppi armati terroristici (Gat), tra continue decomposizioni e ricomposizioni, sono presenti e in crescita.

Per i governi e le forze anti-jihadiste che operano nell’area saheliana l’esperienza afghana dovrebbe stimolare a organizzare rapidamente strategie di lotta, perché il caso afghano può galvanizzare e persino consolidare i piani jihadisti nel Sahel. Il dramma afghano è un invito per gli Stati del Sahel a organizzare una propria risposta alla minaccia della propria sicurezza, soprattutto se si tiene conto delle continue insurrezioni che si verificano nelle aree marginali.

In breve, tra l’Afghanistan (Paese) e il Sahel (area geografica transnazionale), ci sono somiglianze e molte differenze. Il successo dell’insurrezione talebana, nonostante le forze straniere, come detto, rafforzerà la determinazione di gruppi armati terroristici; e magari, se si consolida il potere talebano, agevolare Al-Qaeda a legare, con interventi finanziari e logistici, le due aree. L’evento afghano dà almeno due indicazioni: la prima è che le operazioni “estere” hanno un limite temporale condizionato anche dagli attriti politico/economici, spesso anche tra i Paesi intervenienti, oltre alle tempistiche programmate e non; la seconda indicazione è la necessità di ripensare alla “vitalità” degli Stati-nazione africani.

Infatti, è indiscutibile che la stabilità degli Stati africani si basi sull’integrità delle istituzioni e delle persone che le rappresentano. Magari un esercito al servizio esclusivo dello Stato e degli interessi nazionali, con un rigore nel reclutamento e incarichi verticistici basati sulla meritocrazia, potrebbero strutturare meglio la difesa. Però la presenza ossessiva straniera, indubbiamente, non favorisce tale processo. Il tema è comunque complesso.

Aggiornato il 26 agosto 2021 alle ore 09:14