Massimo Fini, il “Fatto” e lo spirito di patate

Dare importanza alle battute e alle provocazioni di uno come Massimo Fini e alle chiose del suo direttore Marco Travaglio equivale a prenderli sul serio. E questo è un errore da non commettere. C’è chi parla di strategia della disinformazione come quella a suo tempo studiata dal Terzo Reich e che consisteva nel ripetere decine di volte frasi ad effetto, mezze verità e tante distorsioni mediatiche e altrettante mistificazioni della realtà fino a convincere quelli di bocca buona. Che, ad esempio, le proposte di Marta Cartabia in materia di giustizia possano essere classificate come “schiforma”. In realtà – per mia modesta opinione – ci si trova di fronte a quello che ai tempi dei nostri genitori si definiva “spirito di patate”. Cioè le battutine sceme che qualunque liceale o anche alunno delle medie può fare sul professore claudicante o sull’alunno di bassa statura – vedi il povero ministro Renato Brunetta perseguitato da comici di regime come Maurizio Crozza che mai oserebbero prendere in giro ad esempio persone con maschere altrettanto paradossali all’interno della magistratura – provocando inutili sofferenze al malcapitato.

L’editoriale odierno di Fini sul “Fatto” e la “spiritosa” chiosa del direttore Travaglio dimostrano invece come anche la libertà di espressione e di stampa possa essere usata in maniera abbastanza indecente, a scopi di propaganda quando non di puro esibizionismo mediatico. A forza di tentare di stupire il borghese ci si incarta inesorabilmente fino a “capirsi da soli”. Quel che invece va sfatato è che il “Fatto” e alcuni suoi editorialisti possano essere mai stati vittime dei tribunali del politicamente corretto, come suggerisce il direttore rispondendo a Fini. “Ma de che?”, direbbero a Roma.

In realtà questa forma prepotente e sfacciata di ergersi a moralisti della cosa pubblica e di quella privata, se non l’hanno inventata proprio lorsignori del Fatto, quanto meno la hanno perfezionata. C’è l’idolatria dei pm sempre e comunque, specie quando aprono inchieste ideologiche su fatti di oltre mezzo secolo fa in cui anche i possibili imputati sono morti e sepolti, c’è il grillismo come via segnata verso una società migliore, c’è la difesa strenua di ex “eroi” in toga come Piercamillo Davigo, pure quando compiono comportamenti che li portano logicamente quantomeno sotto indagine e ci sono una miriade di tante altre cose che militano nel senso diametralmente opposto.

Una sola cosa, che riguarda Fini, che spreca la propria intelligenza con articoli odiosi come quello apparso oggi sul Fatto, mi va di raccontare perché appartiene alla aneddotica personale di chi scrive. Tantissimi anni fa, nella seconda metà dei ruggenti anni Novanta, dopo una mia lettera al “Foglio” in cui – a quanto ricordo – lamentavo l’uso intimidatorio delle querele da parte di esponenti politici, personaggi famosi e magistrati, venni contattato proprio da Fini che al telefono si dimostrò persona educata e gentile. Voleva promuovere una sorta di “manifesto comune” dei giornalisti contro i politici – e altri personaggi pubblici – che hanno la querela temeraria facile. Nel novero di questi personaggi, purtroppo per lui, omise di elencare quelli in toga.

“Perfetto – gli risposi – aggiungerò senz’altro la mia firma a questo manifesto (a dispetto del noto detto che Indro Montanelli mutuò da uno dei suoi maestri, mi pare Leo Longanesi, e che dice che “chi si firma è perduto”, ndr) purché nell’elenco dei querelanti temerari sia perlomeno aggiunta la voce magistrati”. Fini al telefono si fermò subito e anche la cordialità scomparve. Tentennò e poi balbettò qualcosa sulla “opportunità di prendersela con chi sta dalla nostra parte” – forse della sua, pensai io – e poi non disse nulla e la conversazione finì lì. E per quanto ne so e ne ricordo anche quel manifesto non vide la luce. Di certo non con la mia firma.

Sono questi signori che poi, dopo avere insultato gratuitamente Emma Bonino, che forse non sarà una campionessa olimpica di simpatia ma che quantomeno merita rispetto, e dopo avere persino esaltato i talebani – etichettando l’assassinato Massoud padre come “signore della guerra” – e magnificato il loro Afghanistan privo di criminalità, fatto salvo il traffico di eroina e la coltivazione dell’oppio a migliaia di tonnellate, si lamentano preventivamente del probabile giudizio contro di loro da parte di un tribunale del politically correct permanentemente riunito.

Verrebbe da dir loro “Ma ci facci il piacere”, citando proprio la nota rubrica del lunedì del buon Marco Travaglio. Amen.

Aggiornato il 26 agosto 2021 alle ore 09:02