La caduta di Kabul e il suicidio dell’Occidente

È la catastrofe. Abbandonare l’Afghanistan a quel modo, dandola vinta ai talebani, è un’onta sull’onore degli occidentali che non si cancellerà facilmente. Le immagini di caos e di disperazione che giungono dall’aeroporto di Kabul sono allucinanti. Peggio della caduta di Saigon, il 30 aprile 1975; peggio dall’abbandono statunitense, nell’estate del 2014, di Mosul, della piana di Ninive e del nord dell’Iraq nelle mani dei miliziani del “califfo” al-Baghdadi. Cristiani e yazidi ancora ricordano con terrore i giorni della fuga da parte dei “liberatori” occidentali. È peggio di Dunkerque, nel 1940. Almeno, in quella circostanza, i britannici difesero la sacca di evacuazione delle truppe anglo-francesi dall’avanzata della Wehrmacht, la forza armata del Terzo Reich.

L’agosto di Kabul assume piuttosto le tinte plumbee di un 8 settembre 1943, giorno della resa incondizionata italiana agli eserciti alleati, ma anche giorno del “tutti a casa”, quando l’interruzione improvvisa della catena di comando della nostra forza armata colse di sorpresa le truppe impegnate sul campo al fianco dei tedeschi, lasciandole allo sbando prive di stringenti ordini operativi. Lo hanno detto e scritto tutti, per cui non è necessario stare a ricamarci su: la colpa del disastro è dell’Amministrazione di Washington. Il “gendarme del mondo” ha mollato la presa su un territorio fino a ieri considerato strategico nella lotta globale al terrorismo di radice islamica fondamentalista. Che adesso Joe Biden finisca in cima alla classifica dei peggiori presidenti nella storia degli Stati Uniti d’America non importa nulla. Semmai, le nostre preoccupazioni sono rivolte a quei cittadini afghani, uomini e donne, che si sono lasciati conquistare dalle buone ragioni dell’Occidente e che adesso si vedono cinicamente abbandonati a un destino di morte, in balia della ferocia talebana.

C’è un aspetto della disfatta di Kabul che farà male all’Occidente più di molte battaglie perse sul campo. Con la precipitosa partenza dei contingenti della missione a guida Nato Resolute Support Mission (Rsm), non sono stati lasciati nelle mani del nemico soltanto sofisticati sistemi d’arma ma è andato perso il bene più prezioso per un Paese, o per una coalizione di Stati: la credibilità. Dopo l’umiliazione subita a Kabul, quale nazione vorrà più credere alle profferte di aiuto dei futuri inquilini della Casa Bianca?

Dopo le sconcertanti dichiarazioni ascoltate dalla viva voce di Joe Biden sulla capacità delle forze governative afghane di fare fronte per molto tempo alle pressioni dei talebani – dichiarazioni che la realtà si è incaricata di smentire nel volgere di poche ore – chi in tutta coscienza se la sentirebbe di acquistare una auto usata dal presidente degli Stati Uniti? E il peggio deve ancora arrivare. Già, perché quale gruppo sociale oppresso, in qualsiasi angolo del pianeta viva, vorrà impugnare le armi contro i propri aguzzini interni ed esterni fidandosi del sostegno statunitense? Caliamoci per un attimo nei panni dei cittadini di Taiwan per coglierne lo sbigottimento. Come faranno a dormire sonni tranquilli essendosi finora posti sotto l’ombrello del “grande fratello” americano per stare al riparo dalle mire espansioniste della Cina comunista? Le grandi potenze globali avranno buon gioco nel ridicolizzare il player americano con la capziosa accusa di “abbandonare gli alleati” pur di “proteggere i propri interessi”. In special modo Russia e Cina trarranno dal maldestro epilogo della vicenda afghana importanti indicazioni circa la reale consistenza della minaccia americana.

Ma guardiamo in casa nostra: 53 vittime e 723 feriti, è stato il prezzo di sangue che l’Italia ha pagato in questi venti anni di guerra nella granitica certezza di fare il bene del popolo afghano. Oggi non possiamo neanche lontanamente pensare che sia stato tutto inutile. Se lo facessimo sarebbe come tradire il sacrificio dei nostri ragazzi. In Afghanistan la coalizione dei Paesi occidentali è arrivata nel 2001 (il contingente italiano dal 10 gennaio 2002) con l’operazione Enduring Freedom (Libertà duratura), a seguito dei sanguinosi attentati dell’11 settembre. Bisognava estirpare la radice del male che lì aveva attecchito. Ma come farlo senza mettere in conto di costruire una società nuova su presupposti inconciliabili con l’impianto giuridico-religioso della sharia, codice statutario dell’ideologia fondamentalista islamica? Joe Biden mente quando afferma che: “La nostra missione non avrebbe mai dovuto essere la costruzione di una nazione, ma combattere il terrorismo.

Il target era Al-Qaeda ma anche l’universo talebano di contorno che dal 1996 aveva allungato i suoi tentacoli sulla società afghana, prestandosi a brodo di coltura per la crescita della variabile terrorista nella guerra dell’islamismo radicale all’Occidente capitalistico e cristiano-giudaico. Dopo venti anni l’Emirato islamico dell’Afghanistan è tornato. E al potere ci sono i talebani che osano prendersi gioco degli occidentali imbastendo conferenze stampa farsa allo scopo di vomitare offese sull’altrui intelligenza con sconclusionati ossimori del tipo “siamo impegnati a rispettare i diritti delle donne sotto il sistema della sharia”, come se le parole diritti, donne e sharia potessero combinarsi razionalmente nella stessa frase. E l’Europa? Semplicemente non esiste al di fuori della sua natura di espressione geografica.

Tra i partner dell’Unione non c’è accordo su nulla, neanche sulla volontà di accoglienza dell’inevitabile ondata di profughi afghani che tra qualche settimana al massimo busserà alle porte del Vecchio Continente. L’Europa non c’è oggi e non c’è stata ieri, quando avrebbe dovuto far sentire la propria voce in dissenso presso il potente alleato d’Oltreoceano che annunciava patti stipulati col diavolo talebano. Al momento non resta che affrettare le operazioni di evacuazione dei civili afghani terrorizzati all’idea di essere lasciati nelle mani degli aguzzini. Ma si tratta di un pannicello caldo che non serve a suturare la ferita che mina i cardini della civiltà occidentale. La strada maestra sarebbe stata quella di aiutare quei cittadini afghani, soprattutto giovani e donne, che hanno preso coscienza della superiorità dei valori occidentali rispetto a quelli (antistorici) propugnati dalla visione oscurantista e totalitaria dell’islamismo radicale, a restare nella propria terra per edificare un futuro migliore in grado di dare al mondo qualità individuale, cultura e bellezza al posto di terrorismo e oppio.

Nel caos generale c’è il nostro Mario Draghi che prova a mettere insieme, mediante la formula del G20 la cui presidenza di turno quest’anno è italiana, i potenti della Terra per farli dialogare e giungere a una soluzione condivisa sull’approccio alla crisi afghana. Non possiamo non augurargli di avere successo in un’impresa che al momento appare disperata. Eppure, oggi servirebbe mantenere, a dispetto dell’ultimatum ingiunto dai talebani alla coalizione occidentale per il ritiro totale delle truppe entro il prossimo 31 agosto, un seppur ridotto assetto logistico intorno all’aeroporto di Kabul. Bisogna assicurare il rimpatrio di tutti quei civili occidentali che per diversi motivi, anche umanitari, sono ancora in territorio afghano. I media si sono concentrati su ciò che accade nella capitale ma l’Afghanistan è grande e i cooperanti occidentali sono dislocati in provincie lontane da Kabul. A costoro non possiamo fare spallucce. Come non possiamo restare sordi al grido di dolore delle tante donne afghane che non ci stanno a ritornare alla schiavitù di genere imposta dall’ideologia talebana.

Quegli spiriti, e corpi, eroici vanno messi in salvo e ciò non lo si potrà fare se tutti i militari occidentali andranno via, come pretendono i nuovi padroni. Occorre istituire su suolo afghano un’area franca sotto la giurisdizione delle potenze alleate occidentali. Come fare? A Washington lo sanno bene: costruire una Guantánamo (ci riferiamo alla base navale, non alla prigione) afghana. Come con Cuba, un contratto di affitto perpetuo o, in alternativa, un’occupazione di fatto di un fazzoletto di terra di 45miglia quadrate, garantirebbe agli Stati Uniti in primis di tenere un occhio vigile sulla prevedibile riorganizzazione dei gruppi terroristi islamici e agli afghani desiderosi di libertà di avere una porta aperta sulla modernità. Guantánamo è rimasta in mano americana dal Trattato Usa-Cuba del 1903, sopravvivendo a sessant’anni di castrismo. Perché non rifarlo a Kabul? In fondo, sarebbe un modo di salvare un po’ di quella faccia occidentale annegata impietosamente in un lago di palta afghana.

Aggiornato il 25 agosto 2021 alle ore 09:24