La politica revochi al più presto la delega ai pm d’assalto

La battuta è presto fatta: più che cambiare la giustizia penale va cambiata la mentalità dei pm d’assalto. E tra gli addetti ai lavori girava fin dal Dopoguerra quando già si parlava di riformare la giustizia che all’epoca era ancora saldamente all’ombra del codice di Alfredo Rocco. Cioè quello fascista che introdusse tra l’altro l’obbligatorietà dell’azione penale che poi malauguratamente fu travasata nella Costituzione repubblicana. Già i costituenti nei loro dibattiti dicevano apertamente che più che riformare la giustizia andrebbero rieducate – parole usate nei dibattiti chilometrici nella assemblea costituente – le mentalità distorte dei magistrati della pubblica accusa.

Prima era solo un discorso di riportare le parti del processo su un terreno di parità effettiva, come i vari Davigo non accetteranno mai. Cioè farla finita con il rito inquisitorio. Che purtroppo non era solo un rito ma un’inveterata abitudine che sopravvisse alla riforma di Giuliano Vassalli. Vanificandola nei fatti. Oggi poi c’è un problema ulteriore: togliere quella delega ai vari pm d’assalto – anti corruzione, anti mafia e un po’ anti tutti i mali del mondo – che fu inopinatamente regalata, più che data, nei primi Anni Novanta. Una delega che comprendeva, oltre a risolvere tutti i problemi d’Italia a colpi di inchieste e di manette, anche il mettere la classe parlamentare, politica e di governo in pura soggezione verso le toghe dell’accusa: via in un colpo solo l’immunità parlamentare e anche il potere effettivo di varare amnistie e indulti in Parlamento. Con il piccolo particolare che l’istituto previsto non a caso nella Costituzione più bella del mondo non doveva servire per i politici o solo per essi. Cosa che poi portò a effetti collaterali come il sovraffollamento cronico e irrisolvibile delle patrie galere senza che si potesse metterci una pezza ogni cinque o dieci anni come si faceva prima e come si è sempre fatto persino ai tempi del fascismo.

Con la differenza che in quegli anni i provvedimenti erano di emanazione governativa, cioè di Mussolini, e addirittura ogni due anni circa. E non risulta che la mentalità fascista fosse molto libertaria o garantista. Semplicemente l’amnistia era, ieri come oggi, una valvola di sfogo indispensabile in mancanza di carceri moderne e vivibili e di reali programmi di recupero dei detenuti colpevoli definitivi. Né di misure alternative praticabili per chi era in attesa di giudizio. Siccome l’articolo 27 della Costituzione durante il fascismo non esisteva e dopo fu solo un enunciato ipocrita, l’unica via d’uscita erano i provvedimenti di clemenza periodici. Tolti quelli siamo precipitati in un film dell’orrore che non ha mai fine. La mentalità che oggi andrebbe cambiata da parte di quasi tutti i pm che vediamo in tivù, ai convegni, ai festival cinematografici e nei dibattiti estivi, è quella da superstar. Sono come i rapper e le veline. Come gli influencer. Mancano solo i tatuaggi da esibire. Salvo qualche non rarissima eccezione. Per cui adesso viene fuori che quel che loro più spaventa – in materia di possibile ricezione di direttive europee in una possibile fase due della futura riforma della ministra Cartabia – è questo divieto di spettacolarizzare le conferenze stampa dove le inchieste vengono promosse alla stregua di futuri canovacci per libri di successo o future serie televisive.

Questo ovviamente con la giustizia non c’entra niente e oltre a dare per colpevoli tutti gli arrestati in blitz mega galattici – non di rado ridimensionati dopo poche settimane da tribunali della libertà o persino dalla Cassazione – serve solo per la maggior gloria del pm di turno. Una scorciatoia per la carriera in magistratura o un trampolino verso future scelte politiche o editoriali o imprenditoriali televisive. Vedrete che fare loro digerire questa regola piena di buon senso sarà persino più difficile che fare accettare la responsabilità civile per gli errori seriali che in molti commettono e che hanno trasformato l’Italia in una macchina micidiale se non infernale da mille errori giudiziari l’anno. Tutti da risarcire in un modo o nell’altro con la fiscalità pubblica. Vedremo se più che l’onore di casta per le carriere separate conterà il digiuno di notorietà televisiva.

Sarà un banco di prova quasi freudiano per capire e far capire un po’ a tutti che se non cambierà questa mentalità da supereroi che con molta prepotenza hanno pian piano acquisito troppi pm – specie quelli che obbediscono alle leggi correntizie che il libro di Palamara e Sallusti ci ha disvelato – persino i sei referendum promossi dai Radicali di Maurizio Turco e dalla Lega di Matteo Salvini non potranno fare miracoli. E la politica la prima cosa che deve mettersi in testa di fare è quella di ritirare ogni delega data ai tempi di Mani pulite: non abbiamo bisogno di magistrati che spazzino la corruzione così come nessun altro fenomeno patologico della politica o della esistenza. Loro devono solo applicare le leggi e fare il controllo di legalità. Al limite ci pensano le forze dell’ordine come in Inghilterra a fare indagini in segreto e a portare le prove davanti ai magistrati. E senza il retroterra ideologico che si è sedimentato negli ultimi trent’anni – se bastano – così come senza neanche il sospetto di secondi fini di usare le inchieste per intraprendere carriere politiche o da star televisive ed editoriali.

Oramai a difendere questo stato di cose ci sono solo quei giornalisti che in perfetta malafede fanno loro da grancassa, talvolta quasi da banda di Paese. Acquisendo in cambio notorietà e carriere quasi mai meritate. Da ultimo pure il New York Times se me è accorto, in un editoriale dove se la prendeva persino contro l’intoccabile Marco Travaglio. De hoc satis, avrebbero detto i latini. E Accà nisciuno è fesso, avrebbe aggiunto il principe De Curtis, in arte Totò.

Aggiornato il 06 agosto 2021 alle ore 10:22