Le buone riforme e l’ora del voto

Per avere buone riforme c’è una strada soltanto: andare al voto e porre fine alla supremazia parlamentare dei grillini e di chi, a sinistra, li sorregge. Altra via non c’è.

Fisco, giustizia, mercato e concorrenza, produttività, lavoro e ammortizzatori sociali, spesa pubblica e Pubblica amministrazione, ricerca e studio sono i comparti più importanti da rifondare senza cincischiare ulteriormente. Le riforme devono essere radicali per poter incidere effettivamente sul tessuto economico e sociale. Riforme a metà non servono, di pannicelli caldi non c’è bisogno. E per fare riforme radicali occorre che il vento liberale prenda il sopravvento su quello statalista e giustizialista, e che il populismo, ovunque si annidi, venga spazzato via da serietà e competenza.

Si dice questo perché il presidente designato del Movimento Cinque Stelle, Giuseppe Conte, sabato scorso è apparso in video per annunciare battaglia contro la riforma della giustizia, già varata dal Consiglio dei ministri col voto favorevole di tutti i suoi membri, e contro quella degli ammortizzatori sociali, in particolare del reddito di cittadinanza.

La dichiarazione di Conte, se per un verso conferma le sue straordinarie capacità di adattamento ai desiderata dei suoi ventriloqui, per un altro dimostra l’impossibilità perfino di portare avanti riforme di per sé già annacquate, frutto di estenuanti compromessi al ribasso, figuriamoci di adottare riforme radicali, come invece v’è urgente necessità.

Non è questione solo di rispetto dei vincoli europei collegati al Next Generation Eu. Non è in gioco soltanto la credibilità internazionale del nostro Paese, pure essenziale per camminare a testa alta nel consesso delle nazioni. E dirò di più: neppure è questione di soldi.

Qui è in ballo qualcosa di più importante: la vita delle nuove generazioni e i cardini costituzionali della democrazia, questa è la doppia pelle in gioco.

Spetterà ai bambini e alle bambine di oggi dover fronteggiare il gigantesco debito accumulato fin qui, saranno loro a doversi accollare i costi e a sopportare l’inefficienza della sanità, della previdenza, dell’Amministrazione pubblica, a dover fare i conti con la cattiva giustizia, con un sistema fiscale esoso e disincentivante, con una scuola inadeguata e una università impreparata alle sfide del futuro. Saranno loro, se non saremo noi ad intervenire con radicalità, adesso.

Ma in gioco, come detto, vi sono anche i cardini della democrazia rappresentativa e i principi costituzionali. L’ossuta e irragionevole difesa della legge di Alfonso Bonafede sulla prescrizione, annunciata dal suo mentore, è pericolosa perché dimostra il disprezzo non soltanto degli accordi già raggiunti, ma anche e per l’appunto dei principi costituzionali e di Diritto internazionale che pretendono, tutti e coralmente, che l’indagato e l’imputato siano riconosciuti innocenti fino a sentenza definitiva e che indagini e processi siano ragionevolmente brevi.

L’impuntatura di Conte, poi, sul reddito di cittadinanza è la dimostrazione di un fatto non meno grave, ma che in fondo è solo una delle altre facce del populismo e dello statalismo più irresponsabile: il totale disprezzo dei diritti – sì, dei diritti – di chi sopporta l’onere della spesa pubblica. Chi lavora, produce e paga le tasse ha il diritto sacrosanto di vedere il denaro pubblico speso al meglio, ha il diritto che la spesa sia la migliore realizzabile, non la peggiore.

Cosa potrebbe fare Mario Draghi, allora, se dovesse verificare l’impossibilità per il suo Governo di portare avanti riforme innovative e realmente incisive? Forse potrebbe lasciare Palazzo Chigi e rendersi disponibile per la corsa al Quirinale. Un’alternativa simile, per la serietà dell’uomo e la sua statura, non si può senz’altro escludere. E il voto, a quel punto, diverrebbe una prospettiva concreta.

Aggiornato il 20 luglio 2021 alle ore 09:00