Ddl Zan: la vita spericolata di Enrico Letta

Il Disegno di Legge “Zan” sull’omotransfobia andrà alla discussione in Aula al Senato il prossimo 13 luglio, così com’è. La sinistra demo-grillina ha fatto muro contro le richieste del centrodestra e dei renziani di Italia Viva di negoziare un testo condiviso da votare a larga maggioranza. Il Partito Democratico vuole la vittoria secca. Ne ha bisogno per trovare una ragion d’essere sulla scena politica. E per ritrovarsi. Perché, se è dai tempi della “vocazione maggioritaria” di veltroniana memoria che non si comprende cosa sia diventato il principale partito della sinistra italiana, l’avvento del “cattocomunista moderatoEnrico Letta ha aumentato esponenzialmente la confusione sotto il cielo plumbeo del Pd.

L’allievo di Beniamino Andreatta pensa a un’azione di forza in sede parlamentare per intestarsi l’abbattimento, per via ordinamentale, di un cardine antropologico: le distinte polarità archetipiche del maschile e del femminile. Una scommessa giocata sulla pelle di una parte degli italiani. Di coloro che, vittime della discriminazione e della violenza per il loro orientamento sessuale, attendono un intervento normativo che gli assicuri maggiore tutela. Enrico Letta è sicuro di vincere ma, numeri alla mano, potrebbe perdere malamente. Per stare alla metafora del canottaggio, al Senato la distanza tra l’armo del centrosinistra e quello del centrodestra è meno di una luce. E il risicato vantaggio si annullerebbe se venisse chiesto il voto segreto.

Possibile che Letta non se ne renda conto? Dopo la sortita “corsara” di Matteo Renzi per una revisione del testo di legge, possibile che nel Partito Democratico siano certi di voler andare alla conta? Su Letta francamente è difficile rispondere vista la scarsissima stima che nutriamo per la persona. Lui incarna il modello di politico calato dall’alto nelle istituzioni, che non ha cognizione delle dinamiche della vita reale e dei bisogni della gente comune. Ci sta che difetti della capacità di cogliere il quadro d’insieme in cui si colloca la questione delle tutele giuridiche contro l’omotransfobia. Invece, per la dirigenza del partito, in specie nella componente che proviene dalla storia del Partito Comunista italiano, non troviamo spiegazioni logiche all’arroccamento che ha scelto. Ma è davvero così che stanno le cose? Effettivamente, sotto la foglia di fico della disciplina di partito il malessere è piuttosto evidente.

I media, seppure senza enfasi, danno conto dei mal di pancia che crescono tra i parlamentari del gruppo del Pd al Senato. Sembra di stare a “Quelli della notte”, con il “comunista” Maurizio Ferrini e quel suo tormentone di successo “non capisco ma mi adeguo”. Già, perché gli odierni “democratici”, che conservano gelosamente in tasca le tessere del Pci della propria giovinezza, sono cresciuti politicamente nel solco della strategia togliattiana della “politica della mano tesa” verso il mondo cattolico e verso le gerarchie ecclesiastiche.

Ora, il fatto che sul Ddl “Zan” la Santa Sede abbia fatto sentire la sua voce contraria con un passo diplomatico che non ha precedenti nella storia dei rapporti concordatari disorienta i “vecchi compagni”. Il Partito Comunista non avrebbe mai permesso che una legge controversa spaccasse il Paese spingendo il segmento progressista dei cattolici a mettere in dubbio la faticosa contiguità valoriale tra il popolarismo di matrice dossettiana e il comunismo occidentale che da Palmiro Togliatti a Enrico Berlinguer è stata costruita dagli anni del Dopoguerra. Non fu un caso che al V Congresso del Pci (29 dicembre 1945-6 gennaio 1946) venisse inserito nelle tesi congressuali un giudizio positivo sui Patti lateranensi e sul Concordato, così segnando la definitiva archiviazione dell’annosa “questione romana”, nerbo dell’anticlericalismo risorgimentale.

Dalla tribuna del “partito nuovo” Palmiro Togliatti sentenziava: “Poiché l’organizzazione della Chiesa continuerà ad avere il proprio centro nel nostro Paese e poiché un conflitto con essa turberebbe la coscienza di molti cittadini, dobbiamo dunque regolare con attenzione la nostra posizione nei confronti della Chiesa cattolica e del problema religioso”. L’Italia era sotto le macerie della Seconda guerra mondiale; al Quirinale c’era un aspirante re a reggere la Luogotenenza del regno; non si era ancora votato per la forma del nuovo Stato: Monarchia o Repubblica; alla Carta costituzionale bisognava mettere mano; la Guerra fredda era alla porte ed era concreta la possibilità che l’Unione Sovietica allungasse gli artigli sulla nostra penisola, in dispregio alla spartizione delle spoglie dei vinti pattuita a Jalta dalle potenze vincitrici, eppure i comunisti si preoccupavano di regolare i rapporti con il mondo cattolico facendone un obiettivo strategico prioritario.

I rappresentanti del Pci nel processo costituente votarono a favore dell’articolo 7 della Carta che, riconoscendo l’indipendenza della Chiesa cattolica dallo Stato, recepisce sia i Patti lateranensi, sia il Concordato. Perché lo fecero? Il vertice del Partito, che nel corso della Guerra civile (1943-1945) aveva preso coscienza del fatto di essere classe dirigente del Paese in rappresentanza dei ceti operai e delle masse lavoratrici, aveva tutto l’interesse che fosse “mantenuta e rafforzata l’unità morale e politica della Nazione, sulla base di una esigenza di rinnovamento sociale e politico profondo”.

Avrebbero potuto individuare mille argomenti per una resa dei conti con un mondo cattolico che era stato connivente con il fascismo, ma non lo fecero. Al contrario, si spinsero molto avanti nel percorso di avvicinamento alle ragioni dei cedenti. Per coglierne l’ampiezza strategica bisognerebbe rileggere il discorso pronunciato da Palmiro Togliatti a Bergamo il 20 marzo 1963 e pubblicato dalla rivista del Pci “Rinascita”, dal titolo “Il destino dell’Uomo”. C’è un punto del discorso che, visto con le lenti dell’oggi, lascia di stucco. Dice Togliatti: “Per quanto riguarda gli sviluppi della coscienza religiosa, noi non accettiamo più la concezione, ingenua ed errata, che basterebbero l’estensione delle conoscenze e il mutamento delle strutture sociali a determinare modificazioni radicali. Questa concezione, derivante dall’illuminismo settecentesco e dal materialismo dell’Ottocento, non ha retto alla prova della storia. Le radici sono più profonde, le trasformazioni si compiono in modo diverso, la realtà è più complessa”.

Chiaro il concetto? Invece, questi “scappati di casa” del Pd vorrebbero cambiare il mondo pescando il voto in più di un Lello Ciampolillo qualsiasi, senatore per caso. Roba da chiodi! Benché non faccia piacere ammetterlo, bisogna riconoscere che i comunisti di allora avevano una visione verso cui indirizzare l’azione politica. L’allegra compagnia dei radical-chic da Ztl dei giorni nostri che visione ha? Se ce l’ha. Lo ha mai letto Togliatti o è appagata dalle Epistulae morales di Roberto Saviano, Laura Boldrini e Michela Murgia? A osservarli da fuori – quelli del Pd – si sarebbe portati a dare ragione ad Alessandro De Angelis che sull’Huffington Post parla di renzifobia e di un Ddl “Zan” usato come arma impropria per regolare i conti a sinistra ma che della sostanza di ciò che propone non frega niente a nessuno.

È quindi del tutto comprensibile che ai “compagni della vecchia guardia”, che hanno studiato alle “Frattocchie” (la scuola di partito dei comunisti italiani) sui testi di Antonio Gramsci e di Palmiro Togliatti, prudano le mani ad ascoltare lo stagionato giovanotto (Enrico Letta) che gioca a fare il “cattocomunista moderato” –praticamente un ossimoro – con la fondata possibilità di portare il partito a sbattere.

Mancano dei giorni all’ora X, quando il croupier di Palazzo Madama farà girare la roulette pronunciando il fatidico “Les jeux sont faits, rien ne va plus”. Azzardo per azzardo la buttiamo lì: e se qualcuno dall’interno del Pd all’ultimo istante aprisse a una trattativa con l’opposizione, spiazzando Enrico Letta? E, sempre per stare alla fantapolitica, se questo qualcuno fosse uno che la mattina fa il ministro del Lavoro del Governo Draghi e la sera parla tanto, ma proprio tanto, con Nicola Zingaretti e ha al primo posto in rubrica il numero telefonico di Massimo D’Alema? Ci credereste? Al punto in cui siamo, pur di evitare il disastro di una legge assurda che comprime la libertà di espressione e riscrive il paradigma antropologico della nostra civiltà, siamo disposti a tutto. A credere che Matteo Renzi sia uno statista; che Enrico Letta s’intenda di politica; che i “dem” rinsaviscano. E che Babbo Natale esista.

Aggiornato il 12 luglio 2021 alle ore 09:15