
Alessandro Giovannini, penna di punta de L’Opinione, possiede il dono (raro) di andare dritto al sodo nelle questioni di cui scrive. Lo ha fatto anche ieri l’altro affrontando la delicata vicenda del Manifesto dei sovranisti europei. Sfrondato del sovraccarico determinato dalle ragioni della tattica politica, l’epico scontro si profila tra chi pensa all’Europa come a una confederazione di Stati sovrani e chi, al contrario, tifa per la costruzione di un super-Stato europeo che assorba per intero, o quasi, i quarti di sovranità ancora appannaggio degli Stati-nazione. Sarebbe utile discuterne senza pregiudizi ma la solita sinistra, arrogante e prevaricatrice, ha avvelenato i pozzi del dibattito con la demagogia manipolatrice.
È la medesima solfa da indottrinamento ideologico che abbiamo visto all’opera con il Disegno di legge “Zan” sull’omotransfobia. Essere in dissenso con il mainstreaming sul gender è tabù. Ugualmente, desiderare l’edificazione di una casa comune europea diversa da quella che si va prefigurando nei desiderata delle correnti progressiste continentali, è eresia. Ciononostante, visto che da laici impenitenti, scomuniche e lettere scarlatte non ci hanno mai fermato, pensiamo che qualcosa si debba dire.
Il futuro dell’Unione ci appartiene: non è un’esclusiva delle anime belle del filo-europeismo fideistico e cieco. A fugare ogni dubbio sul “da-che-parte-stai?” diciamo subito che a noi il Manifesto dei sovranisti convince. Perché è una fotografia realistica di ciò che è l’Unione europea nel “sentire” dei popoli e dei governi che vi prendono parte. Il documento fa giustizia delle forzature caricaturali con cui i progressisti in generale, e quelli nostrani in particolare, vorrebbero rappresentarla: un indistinto tecno-burocratico super-statuale che non esiste in natura.
“Non ci può essere altra Europa che quella degli Stati, tutto il resto è mito, discorsi, sovrastrutture”. Chi pensate l’abbia detto? Matteo Salvini? Giorgia Meloni? Viktor Mihály Orbán? Nessuno di loro ha la paternità di un pensiero così efficacemente espresso. A dirlo è stato Charles de Gaulle, padre nobile di un’idea di Europa fondata sul principio di cooperazione intergovernativa permanente tra Stati-nazione. Una Europe des États souverains dal perimetro tanto largo da arrivare a estendersi dall’Atlantico agli Urali. La costruzione comunitaria auspicabile, per volontà del “Generale”, venne indicata nel cosiddetto “Piano Fouchet” (1961), dal nome dell’ambasciatore francese a Copenaghen e uomo di fiducia di de Gaulle. In un Continente in cui le genti si sono combattute per millenni il solo obiettivo realistico sarebbe stato il consolidamento di uno spazio comune fondato sul rispetto delle personalità dei popoli e degli Stati membri, sull’uguaglianza dei diritti e degli obblighi, sulla solidarietà, sulla fiducia reciproca e sul mutuo soccorso.
In una prospettiva di lungo termine si sarebbe potuto giungere a cooperare in quattro settori: politica estera, difesa, cultura e diritti umani. L’Unione era stata pensata da de Gaulle anche, e soprattutto, per stare in piedi con le proprie gambe per reggere le pressioni dei giganti dei due blocchi contrapposti: gli Usa e l’Unione Sovietica. Niente di più. L’Europa federale, invece, è un mito poggiato sul vuoto. Basta ascoltare i pensieri, celati nei discorsi di circostanza di Angela Merkel, di Emmanuel Macron, come anche del giovane premier austriaco Sebastian Kurz, per farsi un’idea precisa di dove sia la verità. Per tutti loro viene prima sempre e comunque, com’è giusto che sia, l’interesse nazionale.
Nessuna personalità politica continentale, a oggi, è in grado di avere un’estensione di ragionamento che colga l’Unione europea nella sua dimensione unitaria. Questione migratoria docet. L’orizzonte del decisore politico coincide con i confini della nazione che governa. Unire giuridicamente e politicamente delle comunità storicamente radicate nei rispettivi spiriti nazionali necessita di alcuni requisiti prepolitici inderogabili. Il primo è la lingua. Ciascuna comunità riconosce nell’idioma nazionale la propria storia, le proprie tradizioni e i propri costumi a cui, legittimamente, non rinuncia. Si prenda il caso tedesco. Storicamente suddivisa in una molteplicità di Stati sovrani, cos’è che ha cementato nei secoli l’identità della nazione germanica? La lingua. Una realtà federale, benché riconosca il diritto alle differenze tra le comunità di cui si compone, deve comunque identificarsi in una cultura comune che generi un Ethos collettivo condiviso.
Dobbiamo intenderci sul termine “cultura”. Al riguardo, lo decliniamo nel senso di “Kultur” secondo la definizione che ne dà Thomas Mann in Considerazioni di un impolitico (1918), cioè quello speciale impasto fatto di arte, religione, filosofia, tradizione che connota in modo esclusivo un popolo conferendogli la misura materiale-spirituale di comunità di destino. Per stare ai fatti, pensiamo seriamente che lo spirito germanico possa fondersi in modo indolore con quello mediterraneo? Fëdor Dostoevskij, a proposito dei tedeschi e del loro rapporto con la civiltà classica romana, nel 1877 scrive in Diario di uno scrittore: “Da quando esiste una Germania il suo compito è protestare. Non si tratta soltanto di quella formula di Protestantesimo che si sviluppò ai tempi di Lutero, bensì del suo Protestantesimo eterno, della sua protesta perenne, così come cominciò con Arminio contro il mondo romano, contro tutto quello che era romano e missione romana e, in seguito, contro tutto quello che dall’antica Roma passò nella nuova e poi in tutti i popoli che da Roma avevano accolto la sua idea, la sua formula e il suo elemento, la protesta contro gli eredi di Roma e contro tutto quello che costituisce tale retaggio”.
Pensate che oggi tutto ciò non valga più e che i “nordici” – quelli che poco più di venti anni fa si riconoscevano nella copertina del “Der Spiegel” che mostrava un grande piatto di spaghetti conditi da una pistola con sotto scritto “Italia Paese delle vacanze” – siano disposti a scendere a patti con i modelli sociali condizionati dall’Ethos mediterraneo? La si chiami “differenza di mentalità” ma quando l’Unione europea, su impulso egemone della Germania, ha abbracciato la filosofia dell’austerity per affrontare la crisi economica del secondo decennio di questo secolo e ha varato il Fiscal Compact non vi ha forse trasfuso più di un’oncia di moralismo calvinista?
Il rientro forzoso del debito pubblico è una concezione riconducibile in modo esclusivo alla teoria economica o piuttosto attiene alla dimensione morale del peccato e della colpa per colui o coloro che vivono spendendo più di quanto posseggano? Domandiamoci allora se l’approdare nel “nuovo mondo” dell’Europa federale debba comportare simultaneamente la perdita di quel senso edonistico della vita sul quale è stata edificata l’identità mediterranea e del quale non abbiamo da vergognarci. Siamo pronti a fonderci con i popoli del Nord sulla base di un’etica luterana che non ci è mai appartenuta? Non si esclude che in un futuro lontano ciò possa accadere; che le differenze inconciliabili vengano ridotte a denominatore comune. Ma non è questo il tempo, non è questa la stagione della Storia che ci vedrà riuniti in un unico corpo statuale, dal Partenone alla taiga di conifere e di betulle del Nord.
Preoccupiamoci piuttosto, come recita il Manifesto sovranista, che la cooperazione delle nazioni europee resti saldamente ancorata alle tradizioni, al rispetto della cultura e della storia degli Stati europei, al rispetto dell'eredità giudaico-cristiana (e pagana, aggiungiamo noi) dell’Europa e ai valori comuni che uniscono le nostre nazioni. Sarebbe già un bel passo in avanti.
Aggiornato il 08 luglio 2021 alle ore 09:22