L’informazione ai tempi del Coronavirus

Pubblichiamo l’intervento del nostro editorialista Claudio Romiti in occasione del “V Congresso nazionale interdisciplinare medico-giuridico. Pandemia Sars-CoV-2, prevenzione, evoluzione postumi responsabilità penale e civile, indennizzi lavorativi - extracontrattuali” organizzato dall’Associazione nazionale Garante Giustizia e Sanità.

Secondo il celebre Joseph Pulitzer “un’opinione pubblica bene informata è la nostra Corte suprema. Perché ad essa ci si può sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l’indifferenza popolare o gli errori del Governo. Una stampa onesta è lo strumento efficace di un simile appello”. Da qui ne consegue che compito fondamentale di una informazione onesta è quello di analizzare i fatti, esprimere dubbi e porre domande in merito. Tutto ciò, mi sento di affermare con amara constatazione, nei riguardi della pandemia di Sars-Cov-2 è avvenuto solo nella fase iniziale di questa tragedia senza precedenti, in cui l’informazione era in prima linea per cercare di comprendere e divulgare l’esatta portata del fenomeno. Dopodiché la stessa informazione, almeno nella gran parte dei casi, è scivolata verso una preoccupante ortodossia sanitaria, nella quale i dubbi e le domande scomode non hanno trovato più alcuno spazio.

In un surreale clima in cui sembrava quasi che fosse in gioco la sopravvivenza della specie umana, l’informazione ha rappresentato e tuttora rappresenta un fattore fondamentale nella propagazione capillare del terrore virale. Essa, contribuendo a far affermare la citata ortodossia sanitaria, ha veicolato una sorta di pensiero unico in cui, per l’appunto, non ci fosse alcuno spazio per dubbi e domande scomode. L’informazione, di fatto, ha avvalorato presso il grande pubblico molte delle assai discutibili restrizioni che sono state lungamente imposte al Paese, descrivendole come necessità obbligate dalla situazione generale.

In tal senso, secondo una efficace definizione coniata dall’amico Nicola Porro (uno dei pochi autorevoli professionisti della comunicazione che ha avuto il coraggio di andare controcorrente), la stragrande maggioranza dell’informazione nazionale si è compattata in blocco in una sorta di giornale unico del virus, adottando – man mano che progrediva quella che potremmo definire come la comunicazione istituzionale del terrore – una vera e propria forma di autocensura, tendente a non dare rilievo a tutto ciò che contrastasse con la narrazione di una catastrofe apocalittica.

Di fatto la grande stampa italiana, includendo ovviamente i programmi radiotelevisivi di approfondimento più seguiti, ha contribuito in maniera decisiva ad invertire il nesso di causalità tra gli effetti reali di una epidemia oramai da tempo sotto controllo e le misure paradossalmente sempre più restrittive che venivano adottate. Accettando acriticamente tali misure, senza esprimere dubbi e perplessità a riguardo, la nostra informazione ha fornito ad una popolazione letteralmente terrorizzata, e per questo ben poco lucida, l’impressione di un continuo aggravamento della situazione sanitaria.

“Se in precedenza ci consentivano di uscire all’aperto senza mascherina, mentre adesso ce ne impongono l’obbligo ovunque, insieme al coprifuoco e ad altre misure più restrittive rispetto alla prima ondata, ciò vuol dire che il virus è ancora più pericoloso di prima”. Così avranno pensato e ancora pensano milioni di nostri concittadini i quali infatti, secondo alcuni recenti sondaggi, malgrado le alte temperature del momento in maggioranza sembrano poco propensi ad abbandonare l’uso della stessa mascherina all’aperto.

In estrema sintesi, diventando il megafono di un coacervo di interessi politici e professionali che si sono quasi spontaneamente uniti in una visione eccessivamente allarmistica, l’informazione italiana ha consentito che nell’immaginario collettivo di un Paese confuso e impaurito si accreditassero alcuni punti fermi sulla pandemia in atto che i numeri sembrano negare in radice: in primis l’idea che il Covid-19 fosse una malattia letale, quando in realtà le stime più accreditate a livello internazionale ci dicono che almeno il 96 per cento di chi la contrae è asintomatico o paucisintomatico (ricordo a tal proposito che secondo il dizionario Treccani per malattia mortale si deve intendere una patologia che ha per lo più esito letale). Da qui si è cominciato a considerare il contagio equivalente alla malattia mortale e al quasi certo decesso.

In secondo luogo, che il Covid-19 colpisse in modo indiscriminato l’intera popolazione, quando già i numeri della prima ora dimostravano che essa rappresentava un serio pericolo solo per una ristretta fascia di persone particolarmente fragili. In terzo luogo che senza le misure restrittive fin qui adottate, su tutte l’uso a mio avviso dissennato della mascherina, avremmo raccolto i morti per le strade. Tutto questo evitando accuratamente di sottolineare che i Paesi che non avevano seguito il nostro esempio, vedi la Svezia, in molti casi mostravano riscontri sulla pandemia ben più lusinghieri dei nostri. In particolare, proprio il grande Paese scandinavo è stato a lungo oggetto di una grande operazione di vera e propria diffamazione a mezzo stampa, ingigantendo una situazione sanitaria che in realtà gli svedesi hanno sempre tenuto sotto controllo, spacciando per obblighi di legge tutta una serie di semplici raccomandazioni consigliate alla cittadinanza dalle autorità locali.

Ultimo ma non meno importante il bailamme informativo tendente a terrorizzare la popolazione sulle modalità del contagio – culminato con la balzana idea del professor Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute, Roberto Speranza, di lasciare fuori della porta di casa abiti e calzature – ha strutturato nella mente dei più l’idea che questo virus respiratorio, considerato quasi più letale dell’Ebola, si comportasse in modo del tutto anomalo, arrivando addirittura a circolare liberamente nell’aria come una specie di radiazione nucleare. Su questa linea per mesi sono andati in onda programmi televisivi a senso unico, trasmessi anche dal servizio pubblico, nei quali si è discusso per ore in merito alla demenziale possibilità di contagiarsi facendo il bagno in mare o imbattendosi in una nube di droplet lasciata sospesa in aria da un ignoto podista/untore.

Il risultato di tutto questo deprimente spettacolo è stato quello di alimentare al massimo grado la confusione e il terror-panico tra i cittadini, anziché contribuire con una corretta informazione ad un necessario processo di razionalizzazione di massa. È altresì avvenuto l’esatto contrario di ciò che dovrebbe sempre fare, o almeno sforzarsi di farlo, una stampa onesta. Laddove avrebbe dovuto prevalere una attenta lettura dei numeri, i quali sin dall’inizio indicavano chiaramente la natura selettiva della pandemia, con l’esigenza primaria di isolare e proteggere essenzialmente i soggetti molto anziani e i fragili, si è rapidamente virato verso un sensazionalismo giornalistico il quale, sebbene sia sempre più tipico della nostra epoca, ha rappresentato e tuttora rappresenta uno dei fattori più autolesionistici per l’intera comunità nazionale in tale particolare frangente.

Una vera e propria catastrofe secondo la radice greca del termine, che significa completo ribaltamento. Un completo ribaltamento di un corretto modo di fare informazione, il quale non si fermi alle enunciazioni dei tanti sedicenti esperti in gara a chi la spara più grossa, ma cerchi, come detto all’inizio, di analizzare i dati, esprimere dubbi e porre le domande giuste.

Domande giuste come quella mai posta dall’ottima Lucia Annunziata all’allora responsabile del Comitato tecnico-scientifico, Agostino Miozzo. Quest’ultimo, nel corso di una lunga conversazione nel salotto televisivo della popolare giornalista, spiegò l’alto numero di decessi riscontrati dall’Italia con la decisione presa dalle autorità sanitarie di conteggiare tutte le persone morte risultate positive al tampone, così come peraltro ancora si legge nei resoconti ufficiali dell’Istituto superiore di Sanità. Ebbene, io al posto della signora Annunziata avrei chiesto a Miozzo lumi in merito. Anche perché, vorrei ricordare, la nostra informazione ha oramai dato per scontato che le quasi 130mila vittime che ad oggi conta l’Italia sono morte per causa diretta del Covid-19, quando in realtà le cose sembrerebbero un tantino più complicate e, proprio per tale motivo, meritevoli di essere approfondite.

Ma a quanto pare anche la maggior parte dei più autorevoli e indipendenti professionisti dell’informazione, al pari di tanti altri personaggi pubblici, per timore di essere additati come negazionisti o untori complici del virus, si sono rapidamente conformati al dogma di una malattia che non lascia scampo e che, per questo si è più volte ribadito, necessitava di durissime misure restrittive. Misure che hanno completamente stravolto la nostra esistenza e che, malgrado la presenza di cure adeguate e di innumerevoli vaccini, ben pochi nel vasto e variegato mondo del giornalismo tentano oggi, dopo circa un anno e mezzo di inaudita limitazione delle libertà costituzionali, almeno di sottoporre ad una onesta analisi critica fondata sui riscontri oggettivi.

In conclusione, se una volta si diceva “l’ho sentito alla televisione” per sostenere la veridicità di una notizia oggi, dopo 16 mesi di ingiustificato terrore mediatico, questo diffuso luogo comune appare del tutto rovesciato. Al posto dei riscontri oggettivi basati sui numeri e sui fatti troviamo una comunicazione di natura essenzialmente emozionale, con tutte le gravi e inevitabili conseguenze del caso.

Aggiornato il 28 giugno 2021 alle ore 11:03