Imparzialità versus indipendenza

Non appena si parla di riforma dell’Amministrazione giudiziaria, immediatamente si mette all’opera la canea delle geremiadi. Nell’ordine: Associazione nazionale magistrati, Consiglio superiore della magistratura, direzione de “Il Fatto quotidiano”, tutti i grillini con in testa Alfonso Bonafede, direzione del Partito Democratico, redazioni dei principali quotidiani e delle più seguite emittenti televisive, osservatori politici politicamente corretti. Lilli Gruber, Gianrico Carofiglio, Tomaso Montanari: tutti costoro, senza alcuna eccezione, in un crescendo rossiniano, a stracciarsi le vesti nel nome dell’attentato alla indipendenza della magistratura.

Ciò accade in particolare quando si propone la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, vista subito quale attentato alla indipendenza della magistratura. Peccato che letteralmente tutti costoro non sappiano cosa in effetti dicano. Infatti, riempirsi la bocca con l’indipendenza dei giudici, come si trattasse del valore assoluto da difendere ad ogni costo, vuol dire non aver inteso in pieno il ruolo che essa gioca.  Ben prima dell’indipendenza, infatti, va presa sul serio la imparzialità del giudizio, per un motivo semplice e comprensibile per tutti.

Da un primo punto di vista, occorre infatti precisare che l’indipendenza dei giudici, a dispetto dalle apparenze, non rappresenta per nulla il principio più elevato al quale tutti gli altri debbano necessariamente soggiacere. A ben guardare, infatti, come molti si preoccupano di chiarire, essa si dispiega in due direzioni diverse ma complementari. Per un verso, va difesa l’indipendenza definita “esterna”, vale a dire quella nei confronti di tutte quelle spinte e controspinte che appunto dall’esterno potrebbero indurre il singolo giudice a condizionamenti tali da influenzare il proprio giudizio, provenienti da altri apparati dello Stato, da gruppi di pressione. Per altro verso, va affermata l’indipendenza anche nei confronti dei sistemiinterni” alla magistratura medesima, dai quali potrebbe provenire una diversa forma di condizionamento: si allude ai gradi superiori della magistratura, al Consiglio superiore. Anche da queste influenze l’indipendenza di giudizio va salvaguardata.

Indipendente, insomma, sarebbe il giudice che risponde solo a se stesso e alla sua coscienza. Benissimo. Tuttavia, non basta. È troppo poco. Ci vuole altro. Ci vuole, in particolare, per costituire la coscienza giudicante, l’imparzialità del giudizio. Si capisce subito infatti che un giudice che fosse indipendente ma non imparziale sarebbe un giudice assai temibile, perché l’esatto contrario di ciò che dovrebbe. Per esempio, un giudice letteralmente fuori di senno o affetto da gravi patologie di carattere psicologico sarebbe di sicuro il più indipendente di tutti, perché nulla e nessuno potrebbe influenzarne la condotta, ma certo nessuno potrebbe fidarsi di lui come amministratore di giustizia.

Ancora. Un giudice intensamente tributario di pregiudiziali ideologiche sarebbe certo indipendente – perché esse scaturiscono dalla sua coscienza più profonda, anche se deformata – ma non sarebbe capace di dispensare giudizi se non ideologicamente segnati, vale a dire viziati da elementi non giuridicamente significativi: l’ideologia al potere, insomma, con tutte le ingiustizie che ne deriverebbero.

Infine, un giudice pur psicologicamente normale e immune da pregiudiziali ideologiche, potrebbe semplicemente mancare di quel minimo di buon senso e di esperienza di vita che sono invece necessari per “dire il diritto”, compito specifico del giudice, il quale appunto “ius dicit”. E si noti di sfuggita che il buon senso non si identifica col senso comune, tanto che Alessandro Manzoni, narrando la peste milanese, chiarisce che “il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”.

In tutti i casi accennati, come si vede, l’indipendenza non basta affatto, occorre invece che il giudice sia radicalmente imparziale, vale a dire immune da deviazioni psicologiche, da pregiudiziali ideologiche, da indifferenza al senso della vita. Senza imparzialità, dunque, può esservi pure indipendenza, ma senza alcun costrutto. Anzi, a volte l’indipendenza finisce suo malgrado per nascondere la mancanza di imparzialità.

Di più. Si può dire che mentre l’indipendenza attiene al “funzionamento” della coscienza del giudice – mi si perdoni l’uso di questa terminologia meccanicistica – l’imparzialità, nei sensi sopra precisati, attiene alla strutturazione stessa della coscienza giudicante che va “formata” adeguatamente: questa infatti viene prima di quella sia sul piano cronologico che su quello logico ed esperienziale. Non si può guidare un’automobile se non costruita con i pezzi che sono necessari allo scopo. Ecco perché la separazione delle carriere va vista in quest’ottica. Essa non pregiudica l’indipendenza in alcun modo. Al contrario, aiuta l’imparzialità.

Aggiornato il 28 giugno 2021 alle ore 09:09