Il multiculturalismo non è un gioco

Alcuni anni fa un giudice tedesco, nel motivare la sentenza di condanna a carico di un sardo (ora vi spiego perché mi riferisco all’origine dell’imputato) accusato di maltrattamenti in famiglia, scrisse che la condotta dell’uomo si radicava, almeno in parte, nelle tradizioni culturali della terra in cui era nato. Apriti cielo. Una levata di scudi, tra i quali spiccava l’intervento di Francesco Cossiga, stigmatizzò immediatamente l’incauto, definito razzista, censurando severamente gli argomenti utilizzati nella decisione.

Capitolo due. Negli Stati Uniti una donna giapponese venne tratta a giudizio per rispondere dell’omicidio dei suoi figli, uccisi in riva al mare prima che la sventurata tentasse di togliersi la vita secondo i rituali della sua terra. La donna fu assolta perché – si disse – aveva agito in piena conformità alle tradizioni culturali (e religiose) sulle quali si era formata. Abbandonata dal marito, aveva fatto quello che una buona donna doveva fare per salvare l’onore (che, da quelle parti, vale più della vita): seppuku, preceduto da una buona morte data ai bambini.

Terzo caso: Saman Abbas. Sapete tutto. Morale: io non dico quello che penso, ma chi si occupa di diritto penale non può eludere il tema delle esimenti o delle attenuanti culturali. In un mondo a colori – fatto di culture molto diverse, di tradizioni fondate su basi etiche a noi spesso incomprensibili – eludere la questione non è possibile. Qualche cosa bisogna pur dire, in un senso o nell’altro e a tutela di tutti.

Io ho la risposta di chi viene da una formazione liberale. Penso che la legge debba essere laica e che ci siano diritti non negoziabili, ma mi rendo conto che il diritto penale esprime (anche) i valori del popolo al quale si applica. Il multiculturalismo, insomma, non è un gioco. Neppure quando si tratta di punire.

Aggiornato il 17 giugno 2021 alle ore 11:22