
Stavolta ci siamo: la ripresa economica è vicina. Lo confermano le stime della Banca d’Italia (+ 4 per cento di Pil nel 2021), che per ragioni di cautela si discostano lievemente da quelle del Governo. Il successo della campagna vaccinale inizia a dare frutti. Con il contagio che viene frenato le aziende e le attività commerciali possono rialzare la testa. Il turismo, che nel 2019 – in epoca pre-Covid – ha pesato per circa il 13 per cento sul Prodotto interno lordo, può ripartire con l’estate che è alle porte. Purtroppo, la rinascita non sarà di tutti.
Passata l’onda di piena della pandemia si dovrà fare la conta delle vittime – in senso economico, perché quella dei morti reali viene aggiornata quotidianamente – che sono le aziende che non apriranno più i battenti. Per consentire il ritorno a una vera normalità vi sarà ancora da sgomberare le macerie di alcune filiere produttive annientate dalla pandemia. Al riguardo, la possibilità che dall’Unione europea possa essere erogata entro il prossimo mese di luglio la prima tranche del Recovery Plan è un fattore di spinta, destinato a impattare positivamente sulla ripresa. La previsione macroeconomica tendenziale fatta dal Governo quota in un +3,6 punti percentuali di Pil nel 2026, rispetto a uno scenario di base, l’effetto dell’incidenza degli investimenti legati all’impiego delle risorse del Next generation Eu.
Tuttavia, questa pur incoraggiante rappresentazione dell’economia italiana potrebbe non realizzarsi, determinando un rapido scadimento della condizione complessiva del Paese. Bisogna che ci si parli chiaramente: il vulnus che può mandare in tilt il programma di rilancio si annida nella mancata realizzazione delle tre grandi riforme di sistema che l’Europa ci chiede, e che gli italiani attendono da decenni. E non parliamo dello Ius soli e del Disegno di legge Zan sull’omotransfobia, farneticazioni di un mondo progressista minoritario e crepuscolare che sente di perdere la presa sulla società e non ci sta a tramontare. Le riforme di cui l’Italia necessita riguardano: Fisco, Pubblica amministrazione e Giustizia.
Tutti e tre gli ambiti presentano enormi problematiche dal punto di vista della riformabilità. Anni di stratificazioni di interessi corporativi hanno contribuito a creare barriere talvolta insormontabili per chi, anche solo superficialmente, abbia provato a riconfigurarne in senso più moderno ed efficace i profili. Ma se dovessimo stilare un’ideale classifica tra i dossier, in base al grado di difficoltà a mettervi mano, la palma della mission impossible spetterebbe alla riforma della Giustizia. Più di un personaggio politico che, in passato, ci abbia provato è rimasto fulminato. L’ordine giudiziario ha imposto un tabù e lo ha difeso usando la funzione giurisdizionale come strumento sanzionatorio nei confronti dei trasgressori. La conseguenza diretta di un’azione mirata alla conquista di un’egemonia non solo culturale ma principalmente etica è stata, come osserva Corrado Ocone dalla pagina on-line di “Formiche.net”, la proliferazione di una sottocultura illiberale di una giustizia sostanzialistica e frutto di risentimento e voglia di vendetta.
La bizzarria del nostro sistema nella tutela dei diritti individuali, che ha reso la civilissima Italia realtà da Terzo mondo nella qualità del servizio-giustizia erogato, si è nutrita di un perverso meccanismo di demonizzazione pronto ad azionarsi per colpire tutti coloro avessero provato a violare il tabù dell’immutabilità del sistema di potere in essere. Ciò ha fornito la motivazione a una nutrita schiera di magistrati per dettare ai cittadini, attraverso la prassi dei quadri accusatori e delle sentenze, i paradigmi delle interazioni pubbliche, estensibili ai rapporti tra privati e all’interno delle mura domestiche. La politica con la sua endemica debolezza non può chiamarsi fuori dal concorso colposo nel consolidamento di una torsione sostanziale dell’architettura costituzionale. Sia chiaro: tutta la politica. Perché in questa vicenda che va avanti da un quarto di secolo, dai tempi del “golpe bianco” della magistratura di cossighiana memoria, materializzatosi con il cortocircuito mediatico-giudiziario di Tangentopoli, neanche il centrodestra ha avuto la forza necessaria di riformare la Giustizia, a cominciare dalla struttura organizzativa della giurisdizione e, soprattutto, di riscrivere le norme per l’effettivo riequilibrio tra l’accusa e la difesa all’interno del processo penale.
Della sinistra c’è poco da dire: è stata, nei diversi momenti della Seconda Repubblica, e in tutte le sue declinazioni, “l’utile idiota” che ha retto il gioco alla quota politicizzata della magistratura. La situazione potrebbe cambiare anche grazie all’allineamento astrale di vicende di cronaca che hanno riguardato l’operato di magistrati. Ma non è detto, però, che i tempi per la svolta siano ancora maturi. Per questo è stata azzeccatissima la scelta di Matteo Salvini di sostenere i sei referendum sulla Giustizia, proposti dai Radicali. Ha ragione Ocone: è stata una mossa geniale quella del leader leghista. Chiamare il popolo a esprimersi su: la separazione delle carriere, imponendo al magistrato una scelta professionale tra la funzione requirente e quella giudicante; l’abrogazione della “Legge Severino”, arma impropria per eliminare dall’agone della politica personaggi sgraditi o avversari minacciosi; l’abolizione della raccolta firme per la formazione delle liste dei magistrati candidati al Consiglio superiore della magistratura (Csm) per evitare il predominio delle cordate di potere correntizio all’interno dell’organo di autogoverno dei giudici; il ridimensionamento della custodia cautelare nella sua utilizzazione come forma anticipatoria della pena; il diritto di voto per i membri non togati nei Consigli giudiziari; dulcis in fundo un classico che si ripropone dagli anni Ottanta, la responsabilità civile dei magistrati.
La giocata di Salvini è una punta di lancia piazzata nel fianco del Governo che se vorrà disinnescarne il potenziale offensivo dovrà elaborare una proposta di riforma della Giustizia a partire, e non a prescindere, dai punti fermi fissati con l’iniziativa referendaria. Lo scatto in avanti del leghista ha spinto i partner di Governo, ma avversari politici che un tempo sono stati gli “utili idioti” messi a guardia dello status quo, a rincorrerlo per non farsi isolare su un tema altamente sensibile. La lettera di Goffredo Bettini, mente pensante della galassia “dem”, a Il Foglio va in questa direzione. Il dichiarare “Non posso rimanere indifferente rispetto ai quesiti referendari promossi sul tema della giustizia dal Partito radicale” di Bettini è un modo furbesco per dire che dalle parti del Partito Democratico sono rimasti spiazzati dall’offensiva radical-leghista e perciò corrono ai ripari per non lasciare il tema alla destra. Un bel salto mortale con triplo avvitamento, quello dell’esponente “dem”, per comunicare che il Pd si è arreso nella difesa a oltranza dell’egemonia del potere giudiziario su tutti gli altri, che riconosce i rischi per una “discrezionalità malata” e che è pronto a trattare una riforma condivisa.
Ma anche la lettera di Luigi Di Maio, sempre a Il Foglio, per chiedere scusa sugli eccessi giustizialisti suoi e del suo Movimento, acquista un diverso senso politico se letta nell’ottica di un marcamento stretto dell’avversario leghista. Di Maio detta la linea ai reduci del grillismo preparandosi alla svolta garantista che gli consentirebbe d’intestarsi una quota di merito nell’approvazione della riforma della Giustizia, magari scaricando il peso delle pregresse posizioni giustizialiste sulla “bad company” degli ex Cinque Stelle, duri e puri, che va prendendo forma e consistenza in Parlamento grazie al lavoro di reclutamento condotto dalla senatrice Barbara Lezzi e dal senatore Nicola Morra. Ora il pallino è in mano al ministro della Giustizia, Marta Cartabia. Tocca a lei decidere se riportare alla normalità costituzionale gli equilibri tra poteri, vulnerati da lungo tempo dalla tracimazione di quello giurisdizionale ai danni degli altri o se, invece, indossare la pelle del gattopardo fingendo di cambiare tutto per poi lasciare inalterati i già cristallizzati sbilanciamenti. La ministra potrebbe sottrarsi a un’opera di reale cambiamento, ma non impedire l’impatto dirompente della consultazione popolare. Già, perché l’orologio della bomba referendaria è stato attivato. E ha cominciato a fare tic-tac.
Aggiornato il 07 giugno 2021 alle ore 09:26