
Giancarlo Giorgetti è stato chiaro: Alitalia continuerà a volare, ma le condizioni per la prosecuzione dell’attività societaria nella nuova denominazione “Ita” devono essere obbligatoriamente quelle di mercato. Solo così il finanziamento pubblico, nuovamente necessario per ripianare le perdite, potrà garantire la ripartenza della compagnia. Punto.
Finalmente, si aggiunge qui e si aggiunge subito, qualcuno sembra voler mettere in pratica un principio economico tanto elementare, quanto essenziale per la vita delle imprese. Il principio è questo: se si opera sul mercato, occorre adeguarsi alle sue regole. E la prima è che l’attività non può generare cronicamente perdite, ma deve garantire quantomeno l’economicità della gestione, ossia, detto grossolanamente, il pareggio di bilancio, per ottenere il quale i costi non possono superare i ricavi. È dal 2009 che Alitalia non ha un bilancio positivo e dunque, permanentemente, cronicamente, i suoi costi hanno di gran lunga superato il pareggio e continuano a farlo. Ad oggi, perde oltre due milioni al giorno.
L’affermazione del ministro dello Sviluppo economico, alla quale sembra corrispondere l’opinione del presidente del Consiglio, Mario Draghi, sottende una ristrutturazione vigorosa dell’assetto industriale: dimezzamento della flotta e dimezzamento del personale, attualmente più di 11mila dipendenti; riduzione draconiana dei costi non strutturali ed eliminazione di alcuni hub, ad iniziare da Malpensa.
La Commissione europea, per autorizzare lo Stato italiano a salvare la flotta tricolore, attende l’approvazione di queste condizioni da parte del Governo. Solo così potrà consentire la deroga al divieto degli aiuti di Stato e il nostro Tesoro potrà dare ad Alitalia i soldi necessari per non fallire, più o meno tre miliardi.
I sindacati, ad iniziare dalla Cgil, si sono detti contrari alla ristrutturazione: lotta dura, ha dichiarato Maurizio Landini, nessun licenziamento, nessuna riduzione dei posti di lavoro.
Fin qui la situazione. Il commento che meglio di altri riesce a spiegarla è questo, asciutto, lapidario, tranciante: “Nel passato l’equazione tante perdite = tanti dipendenti = tanto potere da amministrare era impossibile da smontare. Lo è ancora oggi, e come ieri si gioca con i soldi degli altri, e cioè dei contribuenti che hanno già buttato via oltre 9 miliardi di euro in varie ricapitalizzazioni, prestiti inesigibili e sussidi vari”. Lo ha detto poco tempo fa Domenico Cempella, già amministratore delegato della compagnia alla fine degli anni Novanta.
In queste parole sta una parte consistente della verità. Almeno della verità politica. Come molte aziende pubbliche, anche Alitalia è stata gestita con logiche anti-economiche e queste si sono a tal punto radicalizzate che neppure i soci privati, quando entrati nella compagine sociale, sono riusciti ad estirparle. Il blocco di potere esercitato da sindacati e partiti, un po’ di tutti i colori, è stato così schiacciante da indurre, alla fine, anche gli investitori privati a fuggire a gambe levate.
Certo, errori amministrativi ed errori industriali, anche gravi, sono stati compiuti. Non si dice che la responsabilità sia stata soltanto politica. Ma la radice del perenne dissesto è stata e resta principalmente politica. È lo statalismo bellezza, viene da dire scimmiottando Humphrey Bogart.
Cosa fare adesso? Far fallire la società o tentare l’ennesimo salvataggio, creandone una nuova? La proposta del ministro Giorgetti è forse la sola, oggi, in grado di salvare capra e cavoli: abbattere drasticamente i costi, elaborare un nuovo piano industriale, vendere il marchio al migliore offerente, finanziare momentaneamente la vecchia Alitalia e poi lanciare la nuova società. Nell’alto dei cieli, ovviamente. E magari, sperabilmente, per l’ultima volta.
Aggiornato il 28 maggio 2021 alle ore 11:32