Due paradigmi antropologici: Davigo e Scanzi

Per comprendere meglio la realtà del mondo in cui viviamo, forse può esser utile soffermarsi brevemente su alcuni tipi umani che oggi potrebbero esser considerati al modo di paradigmi di riferimento, capaci di fornire, in senso antropologico, una sorta di chiave utile per intendere il modello sociale in cui ci troviamo a vivere. Così, per esempio, per meglio comprendere la situazione della Roma del primo secolo, qualche scandaglio sulla personalità di Nerone si palesa assai utile, perché fu proprio nel contesto umano e sociale di quel momento storico che essa fiorì, venendone propiziata e permessa.

Allo stesso modo, propongo, per meglio intendere la temperie della nostra epoca, qualche considerazione sulla personalità di due uomini pubblici che, quasi ogni sera affacciandosi dal teleschermo in qualità di ospiti di vari programmi di approfondimento politico, commentano, ammoniscono, criticano: alludo a Piercamillo Davigo e ad Andrea Scanzi. Vediamo dunque brevemente, senza pretesa di completezza e soprattutto senza intenti biografici e neppure psicologici, ma di semplice rilevazione fenomenologica dei loro comportamenti, di ciò che appare all’esterno.

Davigo appare anche ad uno sguardo superficiale come un uomo di potere, che lo ha esercitato per anni e che al potere è perciò abituato. Lo si vede dalla determinazione con cui parla, dal tono che sembra non ammettere mai repliche, dal fatto che dice anche delle cose sbagliate, sbagliatissime, ma con una sicurezza che le fa apparire invece corrette. Non solo. Egli parla e si muove con la certezza di non essere smentito in nessun caso, anche perché il potere di cui ha usufruito per decenni, prima quale pubblico ministero poi come giudice di Cassazione e infine quale componente del Consiglio superiore della magistratura, è stato sempre esercitato al di fuori di ogni controllo esterno, non nel merito delle deliberazioni assunte, ma con riferimento alle modalità del suo esercizio. Ecco perché, tempo fa, egli sbalordì tutti esibendosi in una sorta di sketch televisivo, nel corso del quale, fra il serio e il faceto, sosteneva che invece di divorziare, nel sistema italiano, a suo dire troppo garantista, sia invece conveniente ammazzare la moglie. Inscenò insomma un monologo di alcuni minuti, infarcito di paradossi e di evidenti ed irreali forzature (ma tali solo per i giuristi), attraverso il quale ironizzò pesantemente sulle eccessive garanzie concesse all’imputato a discapito dell’accusa e della rapidità della decisione, sollecitando in tal modo il sorriso degli spettatori.

Ma perché meravigliarsi? Davigo ha sempre visto gli imputati non come presunti innocenti fino alla sentenza definitiva di eventuale condanna, bensì come sicuri colpevoli per i quali bisogna solo prendersi la noia, peraltro necessaria, di cercare le prove di una responsabilità già scontata. Con questo bagaglio insieme culturale e spirituale Davigo ha dunque esercitato la funzione giudiziaria per vari decenni, spesso ospitato in televisione per elargire la sua visione del mondo agli attoniti spettatori. E a tal segno ha poi in buona fede sacralizzato la sua superiorità da uomo di potere, da finire col commettere anche un errore grossolano che probabilmente potrà procurargli qualche noia, perché neppure Davigo, checché lui ne pensi, è al di sopra della legge (per fortuna).

Infatti, come riportano le cronache, quando Davigo riceve i famosi verbali secretati dal pubblico ministero di Milano, Paolo Storari, invece di invitarlo ad indirizzarli in forma ufficiale al Consiglio superiore o dal farlo lui stesso, si limita a metterseli in tasca, cominciando a bisbigliare all’orecchio di questo e di quell’altro il nome del giudice Sebastiano Ardita, quale appartenente ad una associazione segreta di nome Ungheria, il che è palesemente una sesquipedale falsità. Comportamento moralmente discutibile questo, quanto giuridicamente spregiudicato, tipico di chi ha dichiarato – come ha fatto appunto Davigo – che la situazione era così delicata che le regole ordinarie non si potevano seguire, essendo invece necessaria una eccezione che facesse a meno delle vie ufficiali. Insomma, Davigo – e soltanto Davigo – si arroga il diritto insindacabile, tipico della sovranità, di stabilire se e quando sia possibile derogare alle regole vigenti, comportandosi di conseguenza. È appena il caso di aggiungere che se questo diritto se lo fosse arrogato qualcun altro, chiunque altro, Davigo ne avrebbe subito chiesto l’arresto: soltanto lui può far eccezione alle regole. Perciò non è errato affermare che Davigo si sente e si comporta come un Sovrano che si pone al di sopra delle leggi.

E Andrea Scanzi? Scanzi rappresenta invece un tipo umano che, benché simile a Davigo per sicumera e capacità di autorappresentazione, se ne discosta per alcuni tratti tipici. Egli – ospite a giorni alterni con Marco Travaglio presso Lilli Gruber – occhieggia dagli schermi televisivi, ostentando, mentre parlano i suoi interlocutori, un sorriso sottile e livoroso, tale da far intendere che chi osi contraddirlo nella migliore delle ipotesi è uno stupido, nella peggiore un corrotto. Mentre si intende subito che lui, e soltanto lui, è davvero intelligente, cioè capace di capire le cose che accadono, e soprattutto puro, proprio perché gli altri sono tutti tendenzialmente impuri, in quanto corrotti. Forse proprio per questo, Scanzi non si preoccupa, quando lo ritiene opportuno e a seconda della piega che prenda il discorso, di sviare il dialogo in corso, spostando l’attenzione sul suo interlocutore e attaccandolo più o meno direttamente sul piano personale. In questi casi, frequenti e disseminati in ogni dove, Scanzi tralascia dunque gli argomenti oggettivi a favore o contro una certa posizione, preferendo cercare di delegittimare l’interlocutore col privarlo della necessaria credibilità personale.

Nel caso vi riesca, allora trionfalmente cerca lo sguardo di approvazione della Gruber, che subito ottiene, e passa oltre. Se invece non riesca a ridicolizzare colui che egli considera un avversario, mostra visibile stizza, cercando di piegare il discorso verso altri oggetti, altre e diverse questioni. Insomma, anche in questo caso un paradigma antropologico significativo del nostro tempo, un tempo in cui queste tipologie umane vengono propiziate, trovando il loro humus naturale per affermarsi e divenire paradigmatiche. Un tempo difficile e che forse gli storici del futuro, ravvisandovi l’assenza di ogni rispetto umano e di ogni umana pietà, potranno stigmatizzare come un tempo di decadenza: un tempo da basso impero.

Aggiornato il 24 maggio 2021 alle ore 09:03