Occhio a sinistra: nuove tasse in vista

Che la sinistra, prima o poi, proponesse la tassazione dei patrimoni stava nelle cose. Ma che lo facesse in piena emergenza economica e per di più nel giorno in cui il Governo varava una manovra di spesa di oltre 40 miliardi, non era davvero immaginabile. Eppure è accaduto. Enrico Letta ha proposto di tornare a tassare pesantemente le successioni.

Fu il secondo Governo guidato da Silvio Berlusconi, nel 2000, ad abolire l’imposta ereditaria e fu il Governo guidato da Romano Prodi, nel 2006, a reintrodurla, seppure con un’aliquota modesta, del 4 per cento, ed esentando i patrimoni fino a un milione. Ora si vorrebbero elevare drasticamente le aliquote per finanziarie un progetto semi-assistenziale a favore dei giovani.

La proposta deve essere respinta senza “se” e senza “ma”, frutto, com’è, di un’ideologia superata dalla storia ma, a quanto pare, dura a morire definitivamente.

Quella sulle successioni è un’imposta odiosa, anacronistica, inutile e disincentivante.

È un’imposta odiosa perché suscita forte irritazione in chi accumula risparmi in vita per lasciarli a figli e nipoti, e si rende incomprensibile a questi nel momento in cui la devono sopportare. Se c’è un tributo che contribuisce a mortificare il sentimento solidaristico che dovrebbe reggere il rapporto tra cittadino e stato, questo è proprio quello successorio.

I tributi sono belli? No, non lo sono mai, ma l’imposta di cui si discute li rende inaccettabili perché profondamente ingiusta.

È un’imposta anacronistica. La sua logica, quando fu ideata, era quella di rendere “mobile” una parte della ricchezza “immobile”. Era l’epoca dei grandi latifondi e della proprietà terriera, per forza di cose immobile. Si pensò che con un tributo fatto cadere sulla testa degli eredi, parte di quegli immobili potessero essere tradotti in denaro liquido, da destinare, poi, tramite la spesa pubblica, a “chi meno ha”. Diceva Arthur Cecil Pigou, un economista inglese del XIX secolo, che la ricchezza chiama ricchezza: ha più possibilità il giovane ricco di morire ancora più ricco, del povero di morire ricco. L’imposta di successione doveva servire, in questa logica, ad interrompere il processo di accumulazione ed a ridurre le differenze di partenza tra le generazioni.

La teoria finanziaria diventò subito ideologia ed entrò nel codice genetico del socialismo reale. A quanto pare, a leggere le notizie di queste ore, è tuttora viva: invariata nelle sue basi, è rimasta nelle menti di chi ancora crede nel collettivismo e nello statalismo.

È un’imposta inutile. Nell’età moderna, ossia da quando i patrimoni sono divenuti mobili, nomadi nella rete e senza stati, l’imposta di successione non ha mai apportato significative entrate. Anzi, per lo stato i costi di gestione sono sempre stati di gran lunga superiori al rendimento, indipendentemente e prima degli interventi di Silvio Berlusconi e Romano Prodi.

E poi è un’imposta disincentivante. Scoraggia fortemente chi intende destinare il frutto del suo lavoro a figli e nipoti e che, per raggiungere questo fine nobilissimo, si adopera per accrescere la sua capacità di produrre ricchezza. Penalizza e disincentiva, insomma, l’opera che l’uomo realizza mediante il lavoro. Ed è la cosa peggiore, più miope e castrante che uno stato possa fare.

Mortificare il frutto dell’impegno e delle abilità, il sudore e i risparmi di una vita, è scelta in sé sbagliata. E allora, il dubbio che affiora è questo: che la ricchezza, a sinistra, sia ancora vista come lo sterco del demonio?

(*) agiovannini.it

Aggiornato il 24 maggio 2021 alle ore 09:35